Non c’è solo Trump. Ci sono milioni di uomini e di donne che – negli Stati Uniti e in tutto il mondo – attendono l’inizio della sua presidenza tra profonde paure e forti speranze. Proprio perché tanto grandi, è probabile che le une e le altre risulteranno ridimensionate nei prossimi anni. Ma è comunque rilevante che in tanti credano di essere all’inizio di un “nuovo mondo”. Trump non è un accidente della storia, ma l’espressione di tendenze oggi molto diffuse se non prevalenti. Oltre Trump, c’è il trumpismo.
Ne fa parte il potere “imperiale” che gli viene attribuito, cui molti si sono già adeguati in anticipo. Dalla tregua tra Israele e Hamas allo “scambio” per liberare Cecilia Sala, si riconosce alla sua posizione o ai suoi umori un peso determinante. Russi e ucraini si stanno riposizionando in attesa di un suo intervento che molti presumono decisivo, mentre in Europa si dà per scontato che la sua politica danneggerà il Vecchio continente. Ma davvero si aprirà – come il discorso inaugurale di ieri ha ribadito – una nuova stagione di imperialismo americano?
La politica di Trump affonda le sue radici nel neoconservatorismo di fine Novecento e nel connesso allarme per il declino degli Stati Uniti. Anche lo stesso slogan trumpiano Make America great again lo sottintende. Il motivo di fondo è stata la crescita di potenze fuori dal mondo occidentale, che gli Stati Uniti non possono controllare: Cina, India, Russia e altre che si stanno consolidando. Se in precedenza gli Stati Uniti si erano caricati del ruolo di cardine dell’intero sistema internazionale, dopo la guerra del Vietnam e ancor più dopo il 1989, la paura del declino è diventata sempre più forte. E ha ispirato lo “scontro di civiltà”, la difesa esclusiva degli interessi americani, la politica dell’“unilateralismo”.
Il timore del declino suscita sentimenti diversi. Da un lato, voglia di rivincita e di uomini forti che riescano a fermarlo. Dall’altro, rancore, panico e un egoismo irrazionale. Un’America arrabbiata e triste, anche se la sua economia va a gonfie vele, ha votato Trump perché lo vede come un “uomo forte” che non rispetta le regole. Ciò piace a un mondo a esse refrattario perché – si dice – adottandone troppe ci facciamo male da soli: ostacolano le iniziative, rallentano le decisioni, limitano il business. Meglio un’assoluta libertà di negoziare tutto – non solo negli affari ma in ogni campo – senza interferenze esterne, in particolare le leggi imposte dagli Stati o da organizzazioni internazionali. Ma assenza di regole vuol dire che l’unica regola è la legge del più forte. Non a caso, come foto ufficiale Trump ha scelto quella che più comunica cattivismo.
Ciò significa promuovere forme di potere – senza separare o distinguere tra politico, economico, tecnologico ecc. – rozze e semplificate, al contrario di quelle che abbiamo cercato fino a ieri. Rispetto alla storia dell’Occidente, infatti, è un tornare indietro. Hobbes diceva che allo stato di natura c’era la guerra di tutti contro tutti. Per secoli – è la storia degli Stati moderni, un’invenzione tipicamente occidentale – prima l’Europa e poi il Nordamerica hanno cercato di allontanarsi il più possibile dalla guerra di tutti contro tutti. L’abbiamo chiamato progresso, concetto introdotto dal cristianesimo, in particolare da Sant’Agostino, ma oggi scomparso nel dibattito pubblico. La democrazia ne costituisce uno dei prodotti più raffinati: costruzione complessa, limita, articola, distribuisce il potere. Impedisce la sua concentrazione nelle mani di uno solo (dittatura), di un gruppo (oligarchia) o di una massa (totalitarismo). Garantisce l’intangibilità dei diritti umani fondamentali; impedisce alle maggioranze di schiacciare le minoranze; separa i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario perché si controllino a vicenda ecc. In democrazia, persino il potere supremo – la sovranità popolare – ha un limite: è il popolo stesso a darselo, adottando una Costituzione che pone limiti insuperabili a tutte le leggi successive. Invece – seppure in modi non sempre espliciti e con varia intensità – il neoliberismo, l’antipolitica, il populismo, il sovranismo e, da ultimo, il trumpismo esprimono fastidio per la democrazia, procedendo – passo dopo passo – a decostruire quello che, faticosamente, l’Occidente ha costruito per secoli.
Ma davvero l’“uomo forte” è quello che distrugge le regole? O non è piuttosto quello che le costruisce e le difende, osservandole lui per primo per poterlo poi chiedere agli altri? Il trumpismo è una visione miope: guarda agli affari di oggi, non ai problemi di domani. Tra i suoi primi atti, Trump promette la deportazione di milioni di immigrati e la “salvezza” di Tik Tok: la prima piace al 55% degli americani e la seconda a 170 milioni di consumatori degli Stati Uniti. Per lui è un ottimo affare: usa il suo potere in cambio di consenso cioè di maggiore potere per sé. E così va verso quello che l’Occidente ha combattuto per secoli: il “dispotismo orientale”, aborrito da Montesquieu e dall’illuminismo. La battaglia tra democrazie occidentali e autarchie orientali, di cui si è parlato tanto negli ultimi decenni, finirà con la vittoria delle seconde per autodistruzione delle prime?
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