La strategia del divide et impera. Così Trump e Xi vogliono conquistare l’Europa

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Donald Trump inaugura oggi la sua presidenza, avendo già rotto molte regole alla base di democrazia e diplomazia; la Russia ha usato la forza per ridefinire i confini nazionali dell’Ucraina in violazione del diritto internazionale; e la Cina di Xi Jinping persegue l’imperialismo economico nel mondo. In poco tempo sono cambiati radicalmente gli equilibri e le logiche della politica che per trent’anni sono stati alla base della globalizzazione, la crescita economica del mondo, l’espansione del commercio internazionale e l’integrazione dei mercati dei capitali.

Un’analisi di Politico a proposito della “relazione speciale” tra Regno Unito e Stati Uniti osservava come questa sia già stata archiviata da Trump e avvertiva il governo Laburista del pericolo di trattare l’amministrazione americana come un fenomeno transitorio, limitandosi quindi a gestire la nuova situazione, invece di sviluppare un piano strategico per affrontare un futuro dove i paradigmi degli ultimi decenni non saranno più validi, e dove la politica costituirà un rischio economico predominante. Un monito che vale per tutti i paesi europei.

La guerra tariffaria

Negli Stati Uniti e in Europa la politica monetaria si è incentrata sulla lotta all’inflazione basandosi sull’analisi di variabili economiche quali l’andamento dei consumi, i margini delle imprese, la dinamica salariale e l’occupazione. Ora però la guerra tariffaria dichiarata da Trump è diventata la principale determinante del rischio di inflazione.

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C’è poi la promessa di tagliare le imposte, altro piatto forte di Trump, che aumenterebbe ulteriormente il disavanzo pubblico, e che ha fatto innalzare i rendimenti sui titoli di stato in previsione delle maggiori emissioni future di debito pubblico. La centralità del mercato finanziario americano ha però fatto sì che le aspettative di una maggiore inflazione e tassi più elevati attirassero capitali esteri indebolendo le monete e facendo lievitare i tassi nel resto del mondo. Tassi e cambi dipendono quindi come non mai dal rischio politico delle decisioni di Trump.

Le ripercussioni della politica americana sui mercati finanziari nel mondo è la conseguenza della centralità del dollaro: si stima che questa valuta sia usata nel 73 per cento dei finanziamenti globali a non residenti, 48 per cento dei pagamenti internazionali, 88 per cento degli scambi sui mercati valutari e 58 per cento delle riserve ufficiali.

Euro e dollaro

A venticinque anni dalla sua nascita l’euro rimane dunque una valuta “locale” per gli scambi all’interno dell’Europa, perché manca un grande mercato liquido di un “safe asset” in euro, ruolo invece svolto dai Treasury Bond per il dollaro, un mercato unico europeo dei capitali in grado di competere con quello degli Stati Uniti per capacità di mobilitare risorse, e banche in Europa in grado di erogare finanziamenti per dimensioni analoghe a quelle dei maggiori istituti americani. È il costo che paghiamo per una frammentazione frutto della miopia del crescente nazionalismo che vede nella costruzione dell’Europa solo una perdita di potere per i governi dei vari paesi.

Non solo Trump, i rischi geopolitici per l’Europa arrivano anche dalla Cina. Alle prese con una profonda crisi immobiliare che ha falcidiato la ricchezza delle famiglie e depresso i consumi privati, con il rapido invecchiamento della occupazione e la disoccupazione giovanile che aumentano il costo del welfare per lo stato, la Cina si ritrova con un eccesso di capacità produttiva che deve esportare per sostenere la crescita; e che le tariffe di Trump reindirizzeranno sempre più verso l’Europa, sfruttando anche i nostri ritardi e miopia nella transizione ambientale.

Non solo Trump

La Cina, con il massiccio sostegno dello stato, si è creata una posizione dominante nella costruzione di pannelli solari, pale eoliche, batterie, veicoli elettrici, come pure nella tecnologia, procedimenti chimici e controllo sulla filiera di minerali e materie prime necessari alla loro produzione.

L’Europa invece ha disegnato un grande progetto ambientale ma senza avere un piano concreto per realizzarlo e senza mutuare le enormi risorse necessarie a finanziarlo. Il crollo del 30 per cento delle vendite in Cina della Porsche, simbolo dell’eccellenza dell’industria automobilista europea, rappresenta quasi un segno del nostro declino. L’Europa si trova ora di fronte all’alternativa di usare i prodotti cinesi per fare la transizione ambientale a basso costo, mettendo però fuori mercato l’industria locale, o di alzare le barriere doganali per sussidiare le produzioni locali, aumentando il costo della transizione e allungandone i tempi visti i ritardi accumulati. Ancora una volta miopia, frammentazione e nazionalismi penalizzano l’Europa.

Il cambiamento di paradigma che Trump ha imposto alla politica, tocca anche l’uso dei criteri Esg per gli investimenti e i finanziamenti, che hanno l’obiettivo di penalizzare le produzioni ad alto impatto ambientale, aumentandone il costo del capitale. A prescindere dall’efficacia dei criteri Esg, ampiamenti dibattuti, di fatto vengono spazzati via con l’arrivo di Trump, che si oppone alla rivoluzione verde, perché le maggiori case di investimento e banche americane, a partire da colossi come BlackRock e JPMorgan, ma anche la stessa Federal reserve, sono usciti dagli accordi internazionali per la finanza sostenibile. Ma poiché le istituzioni finanziarie americane dominano il mercato dei capitali nel mondo, i criteri Esg, se adottati dalle sole istituzioni europee, hanno un valore di facciata. Un altro campo dove l’economia europea subisce le conseguenze di decisioni politiche per via del nanismo delle proprie istituzioni finanziarie.

La politica energetica

L’invasione dell’Ucraina ha cancellato con un tratto la politica energetica europea che dipendeva dalla Russia e che subisce i ritardi nello sviluppo delle rinnovabili. Ora Trump butta sul tavolo dei negoziati con l’Europa l’acquisto di Lng (gas naturale liquefatto) americano, che ha costi più elevati per via della concorrenza dell’Asia. Altro rischio economico che dipende dalla geopolitica. Lo stesso vale per la spesa militare, oggetto di trattativa con Trump sul costo della Nato. Potrebbe essere un’occasione per l’industria della difesa europea, se non fosse che anche questa è frammentata secondo logiche nazionali.

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L’utilizzo che Elon Musk fa di X per interferire nella politica europea sostenendo nei vari paesi i partiti politici con affinità al trumpismo (Giorgia Meloni, AfD in Germania, il Reform di Nigel Farage nel Regno Unito) è la quintessenza dell’uso della politica al di fuori dei canoni tradizionali per promuovere interessi economici. Non dovrebbero esserci dubbi che il trumpismo non è un’ideologia, ma solo uno strumento da usare in un negoziato economico. Una logica che però sfugge ancora ai canoni della politica europea.

Musk la usa per diffondere Starlink nelle comunicazioni satellitari sfruttando i ritardi europei in campo tecnologico. Come lo è stato per la telefonia (Apple, Android di Google, WhatsApp di Meta), l’intrattenimento via streaming (Netflix, Comcast-Sky, Discovery, Amazon Prime, Disney), i social (Instagram, Facebook, YouTube), l’intelligenza artificiale e tutto quanto legato al suo sviluppo e applicazioni (processori, mainframe, cloud), o l’e-commerce (Amazon). L’Europa paga un ritardo tecnologico ormai incolmabile. Con Musk cambia il metodo, ma il risultato è lo stesso. Ora tutto viene usato per aumentare il potere negoziale al tavolo dei negoziati. Meglio essere realistici. Ma almeno i paesi europei dovrebbero compattarsi nel definire una strategia, se non unitaria, almeno concordata, per affrontare il negoziato con Trump, difendersi dall’imperialismo economico cinese, e da quello militare di Vladimir Putin. Rendendosi conto che Trump, Musk, Putin e Xi Jinping, anche se con finalità diverse, stanno tutti usando nei confronti dell’Europa la strategia del divide et impera, dove il sostegno alle forze politiche europee che propugnano il nazionalismo è solo uno strumento per favorire la frammentazione dei paesi utile ad aumentare il loro potere negoziale per ottenere vantaggi economici. La presenza di Meloni e Farage all’inaugurazione della presidenza Trump, alla ricerca di un effimero vantaggio personale, non potrebbe essere segno più eloquente della spaccatura in atto in Europa, proprio quando l’unità sarebbe indispensabile.

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