Falso | Stefano Bartezzaghi

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Il 21 febbraio del 1979, un mercoledì, la professoressa di italiano della mia classe di liceo assieme al registro posò sulla cattedra anche una copia di Repubblica, quotidiano che non le avevamo mai visto sfogliare. Alla ricreazione cercai di soddisfare la mia curiosità, ma lei mi disse soltanto, parendo però un po’ imbarazzata, che sul filobus che la portava a scuola un passeggero leggeva il quotidiano, con un grande titolo che l’aveva colpita e così, una volta giunta alla sua fermata, era passata da un’edicola. Ma la copia che aveva acquistato portava un altro titolo. Quello che intravisto in filovia aveva, molto comprensibilmente, colpito la professoressa era: ” È la terza guerra mondiale”. L’articolo di fondo di Eugenio Scalfari si intitolava: “Manteniamo la calma” e cominciava con una sentenza “Ci siamo: anche la terza guerra mondiale è scoppiata, al pari delle altre due”. Del tutto simile a una prima pagina di Repubblica non si trattava del quotidiano allora giunto al terzo anno di pubblicazione. Era invece uno dei falsi prodotti dal settimanale satirico Il Male, in cui ottime contraffazioni della grafica di quotidiani (oltre a Repubblica, Il Corriere della sera, La Stampa, Paese Sera) riportavano notizie di grande clamore, come l’arresto di Ugo Tognazzi in quanto capo delle Brigate Rosse, l’estinzione dello Stato, lo sbarco di extraterrestri sulla Terra. È appena uscito un libro curato da protagonisti di quell’epoca che ne rievoca le gesta: Mario Canale, Angelo Pasquini, Giovanna Caronia, Gli anni del Male, Quando la satira diventa realtà, (DeriveApprodi, 2024).

In un’epoca in cui le potenzialità di “falsogenesi” dell’Intelligenza Artificiale non potevano essere neppure sospettate, le copertine del Male costituirono l’episodio che mise con maggiore evidenza sotto gli occhi di tutti la potenza eversiva del Falso, inteso sia come categoria filosofica sia come genere testuale sia, perfino, come reato. C’erano stati casi storici, come quello dei Protocolli dei Savi di Sion, dimostrati falsi già nel 1921 ma serviti anche in seguito ad alimentare la propaganda antisemita nazista e tuttora circolanti. C’erano i falsi artistici, come i Vermeer prodotti da Han van Meegeren e da questo venduti a musei e a gerarchi nazisti negli anni Trenta e Quaranta. C’era anche stato pochi anni prima un esperimento della Rai, condotto da Umberto Eco a scopo di studio, in cui si mostrava a un campione di pubblico un documentario che narrava una rivolta in Liechtenstein, in realtà non avvenuta (“Storia di una rivoluzione mai esistita”, 1976). Un esperimento analogo andò realmente in onda nel 1990, nel programma di RaiDue Mixer, quando il giornalista Enrico Deaglio costruì con la complicità di un testimone mendace e un montaggio di filmati in parte genuini e in parte ingannevoli un’inchiesta intesa a dimostrare che nel referendum istituzionale del 1946 sulla forma dello Stato italiano la maggioranza dei voti era in realtà andata alla monarchia (alla fine della puntata si rivelava la finzione ma ancor oggi la puntata stessa viene citata da filomonarchici a prova dei presunti brogli). Ma a colpire l’immaginario collettivo come le false prime pagine prodotte dal Male fu soltanto la vicenda delle false teste di Modigliani (Livorno, 1984).

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Di fronte ai casi che si moltiplicano oggi, per esempio Kamala Harris vestita da militare russa o il video prodotto via AI del pranzo fra Joe Biden e Donald Trump alla Casa Bianca, mi torna sempre in mente quella mia professoressa: la sua sorpresa, il suo tentativo di documentarsi, il suo smarrimento e la sensazione di esserci cascata come una stupida che deve averla pervasa quando nel corso della stessa mattinata studenti lettori del Male le rivelarono il tranello. Io so che Kamala Harris non è stata arruolata dall’esercito russo, so che Biden e Trump hanno avuto un incontro assai più formale, così come quel giorno sapevo che la Terza guerra mondiale non era scoppiata (essendo io stesso un lettore del Male). Ma so anche che un falso viene rivelato da alcuni parametri che, a decenni di distanza da quegli eventi, sono parecchio mutati.

Uno dei massimi studiosi del Falso è stato Umberto Eco, che ha dedicato all’argomento studi semiotici, articoli, corsi universitari, conferenze, esperimenti scientifici e persino romanzi (Baudolino, Bompiani 2000; Il cimitero di Praga, Bompiani, 2010). Quello che Eco conclude è che difendersi dal Falso non è affatto difficile; quello che è difficile è avere un concetto del Vero. Per rendersene conto basta guardare a coloro che hanno un concetto solidissimo del Vero: per esempio i terrapiattisti o gli antivaccinisti. La loro fiducia è incrollabile e sono impermeabili a qualsiasi tentativo di dimostrazione del fatto che quanto loro credono vero sia in realtà falso.

I falsi Vermeer furono scoperti anche perché il falsario aveva usato pennelli prodotti nel Novecento. Se avesse trovato dei pennelli del Seicento (così come aveva dipinto su tele dell’epoca) questo non avrebbe “dimostrato” l’autenticità. Così come l’avere emulato perfettamente lo stile pittorico di Vermeer, aver rispettato i canoni pittorici vigenti all’epoca di lui, non aver compiuto altri errori, furono fattori capaci di incrementare la verosimiglianza del suo inganno ma incapaci di costituire una prova. Non abbiamo alcun sistema di comunicazione che impedisca di mentire o che rilevi il Falso e ce lo riveli.

Un punto che può essere utile oggi di quei ragionamenti (spesso profetici) di Eco riguarda la differenza tra falso e contraffazione. Che fosse scoppiata la Terza guerra mondiale era falso: ma ci si poteva ingannare soltanto vedendo la pagina da lontano, come accadde alla mia sfortunata professoressa di lettere. Il resto del fascicolo era un numero del Male, con la testata bene in vista, e denunciava del tutto chiaramente la sua natura di burla. Era un falso, ma era soltanto in parte una contraffazione. Se io credo che piova e lo dico, se c’è il sole ho detto il falso ma non sto contraffacendo il vero. È contraffazione soltanto se so che il tempo è sereno ma dico che piove perché non voglio uscire. Il problema, dice Eco, è di ordine non ontologico bensì pragmatico.

Il falso del Male si presentava come vero ma ammetteva subito di essere falso. Il falso dei Protocolli antisemitici si presenta come vero e resiste alle smentite storiche e filologiche poiché approfitta dello statuto di “Verità che provano a soffocare”, uno statuto che di per sé nella nostra società ha una forte capacità veridittiva.

I deepfake e in genere i falsi prodotti dall’AI – come l’annuncio di un attacco al Pentagono o il video in cui il governatore di BankItalia promuove prodotti finanziari – non hanno enunciazione, appaiono nelle bacheche e nelle timeline dei social network come dei “si dice che”. Se sul piano del contenuto il loro è un effetto dirompente, sul piano dell’espressione appaiono come dati di fatto, banalità di cui prendere atto, qualcosa che ormai tutti sanno. Come tutto ciò che circola sul web vengono chiamati “contenuti” proprio perché è come se non avessero espressione e enunciazione, ma si imponessero come pure realtà. È il motivo per cui le intercettazioni telefoniche circolano e vengono considerate, fanno opinione, anche quando sono illecite e frutto di abusi di inquirenti giudiziari o investigatori privati. Ciò che diventa “virale” cancella le tracce della sua produzione e quindi non appare più dipendere da un’intenzione né può essere contraffazione. Potrebbe essere falso, certo. Ma intanto è. E nel frattempo parlare di Terza guerra mondiale non fa più ridere.

 

Promp, Chi parla? Voci raccolte da Stefano Bartezzaghi, speciale in collaborazione con MAgIA, Magazine Intelligenza Artificiale. Leggi la rivista qui.

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