L’abbaglio – L’illusione che muove il mondo

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Squadra che vince non si cambia: il proverbio sembra azzeccato per prodotti come L’abbaglio, diretto da Roberto Andò, nelle sale dal 16 gennaio. Specie se si parla del trio assodato Toni Servillo-Salvo Ficarra-Valentino Picone, che dopo un primo film dedicato alla letteratura e al teatro – il fortunatissimo La stranezza – si riunisce per viaggio nella Storia (e forse in un terzo capitolo, come spesso scherzano). Specie se, ovunque siano, li si vuole vedere letteralmente brillare.

Con questa premessa, i paragoni con La stranezza – la cui sceneggiatura è rimasta nei cuori di molti spettatori – sorgono naturali. Ma L’abbaglio è un film differente, per storia, ambientazione e volontà. Siamo infatti nel 1860: l’Italia non è ancora Italia, le popolazioni regionali sparse sullo stivale sono stanche dei continui soprusi dei governi stranieri sulle loro terre e un uomo («nient’altro che un uomo» nelle parole di Victor Hugo) di nome Giuseppe Garibaldi decide di partire da Quarto, vicino Genova, per andare in Sicilia. La sua missione è quella di cacciare i Borbone dal sud, risalire verso nord e unire tutti i popoli per conto del re Vittorio Emanuele II di Savoia. Questo ci arriva dai libri, ma Andò decide di giocare con questo capitolo di storia italiana per raccontare di due persone comuni, coinvolte in una serie di eventi più grandi di loro e più grandi di tutta la nazione.

abbaglio toni servillo

Domenico e Rosario (Ficarra e Picone) sono due uomini in fuga: uno vuole a tutti i costi ritornare in Sicilia per sposare la sua amata, mentre l’altro vuole scappare da Venezia per darsi alla bella vita. Vengono arruolati tra i famosi Mille, ma con lo sbarco di Marsala i due ne approfittano per scappare, macchiandosi di diserzione, con sdegno del freddo e determinato colonnello Orsini (Servillo), siciliano come loro. La pellicola si divide tra lo spaccato storico e la commedia bucolica – specialmente nella prima parte, in cui i due picciotti chiedono ospitalità in un convento di suore – senza escludere tuttavia il lato drammatico della guerra, che viene dimenticato dalle narrazioni gloriose e patriottiche: le gravi perdite, l’appello sul campo di battaglia per riconoscere i morti, le ferite e le mutilazioni.

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Dopo la battaglia di Calatafimi, l’evento cardine del film, Garibaldi (un Tommaso Ragno che sembra uscito da un quadro ottocentesco) pone Orsini a comando di una spedizione-diversivo: il colonnello sarà a capo di un gruppo di garibaldini nel paese di Corleone, con la missione di distrarre gli eserciti francesi così da permettere all’Eroe dei due mondi di entrare indisturbato a Palermo. Nonostante l’umana paura e la consapevolezza di star mandando i propri uomini a morire, Orsini accetta suo malgrado, spinto dalla sua determinazione e dalle sue idee di libertà, e i due ex-disertori siciliani avranno modo di rientrare tra le file dei Mille e prendere parte alla Storia.

abbaglio tommaso ragno

«Perché la Sicilia?» L’intento del film sta tutto nella risposta di Orsini a questa domanda: i siciliani sono «un popolo che si rivela nei silenzi, nelle parole che non dice». Con lo sbarco a Marsala e la progressiva liberazione del Meridione gli abitanti accolgono il colonnello e Garibaldi, offrendo il loro sostegno in battaglia: è l’occasione di riscatto per un popolo che per anni è stato e si è sottomesso, alla stregua dei governi che si sono susseguiti, dei briganti e della mafia. Domenico e Rosario incarnano proprio quella possibilità di redenzione: comprendono la drammaticità della guerra e arrivano a sacrificarsi come i più grandi patrioti, mettendo in scena il giuoco delle parti — come direbbe quel Pirandello già protagonista de La stranezza.

Vera protagonista dell’opera, al pari dei personaggi principali, è la Sicilia: l’isola viene ritratta in campo lungo con inquadrature ampie, riprese con dolly e droni che ritraggono i paesaggi rurali tenendo le grandi città all’orizzonte, nel quale gli uomini si perdono. Andò firma così una vera e propria lettera d’amore alla regione, al suo dialetto che risuona come musica e alla buona volontà della sua gente — un po’ come avevano fatto a loro volta Colapesce, Dimartino e Zavvo Nicolosi con La primavera della mia vita.

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«Fortuna favet fatuis», dice di nuovo Orsini: la fortuna aiuta gli sciocchi. Se in un primo momento questo detto possa ricondurre al destino dei due disertori, nel finale del film assume un altro significato, amaro e drammatico. Andò ci lascia quello che si definirebbe food for thought, quasi un monito: evitando spoiler, i tre protagonisti avranno un ultimo incontro molto ravvicinato, durante il quale il quieto riserbo e la freddezza di un rapporto tra compagni d’armi e superiore si trasformano in una condivisa rassegnazione. È un momento che, intenzionalmente o meno, ricorda la riunione dei tre commilitoni rimasti alla fine di Mediterraneo di Salvatores: perché forse l’abbaglio è proprio questo, è l’eterna «illusione che muove il mondo», insita negli animi degli ambiziosi e dei volenterosi. Quelli che il mondo lo vogliono cambiare davvero, ma che si rendono conto di essere troppo piccoli per riuscire a farlo, o di essere gli unici a volerlo.





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