La crisi dell’auto vista dal Portogallo – Alessandro Lubello

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Mentre la Cina registra per il 2024 un surplus commerciale record di mille miliardi di dollari, nel resto del mondo vari settori industriali sono alle prese con paurosi cali del fatturato. Un esempio eclatante è l’industria automobilistica, messa in difficoltà dall’arrivo delle auto elettriche, ibride e tradizionali prodotte su grande scala in Cina. In Italia nell’anno appena finito la produzione della Stellantis è diminuita del 36,8 per cento, ai livelli più bassi dagli anni cinquanta, passando dalle 750mila unità del 2023 alle 475mila del 2024.

La situazione non è migliore negli altri paesi. La Volkswagen ha evitato la chiusura di tre impianti in Germania, siglando un accordo con i sindacati che prevede duri sacrifici per tutti i dipendenti. In Giappone i colossi Honda, Nissan e Mitsubishi stanno pensando a una clamorosa fusione per riuscire ad affrontare le sfide del mercato automobilistico mondiale. Le tre aziende sono in difficoltà a causa della concorrenza della Cina, che da tempo ha superato il Giappone come principale esportatore di auto. Molti marchi registrano gravi battute d’arresto proprio sul mercato cinese, da anni una ricca fonte di entrate: le vendite della Porsche nel paese asiatico, per esempio, sono crollate del 28 per cento.

Nel 2024 grandi nomi come la General Motors, la Volkswagen, la Tesla e la Toyota hanno visto il peso dei marchi cinesi sul mercato locale arrivare al 61 per cento, l’8,6 per cento in più rispetto all’anno prima. Un’ascesa che non è destinata a fermarsi.

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Nell’Europa occidentale è diversa la situazione della Spagna e del Portogallo, due paesi che da anni continuano a sviluppare la produzione di veicoli e di componenti (la Spagna, che è il secondo produttore europeo, con numeri decisamente più grandi di quelli del Portogallo) grazie a una serie di incentivi unita a prezzi dell’energia e a un costo del lavoro relativamente bassi. Basti pensare che l’Automobile Cells Company, la joint venture creata dalla Stellantis, dalla Mercedes e dall’azienda di batterie Saft, ha messo in pausa il progetto di aprire delle gigafactory in Italia e in Germania, ma ha annunciato che ne costruirà una per la produzione di batterie a basso costo a Saragozza, in Spagna, in società con il colosso cinese Catl.

Intanto in Portogallo lo stabilimento della Stellantis a Mangualde, nel nord del paese, ha chiuso il 2024 con 86mila veicoli prodotti, il 2 per cento in più rispetto al 2023. È il miglior risultato di sempre per un impianto che dà lavoro a novecento persone e si sta lanciando nella produzione di auto elettriche in un periodo molto difficile per la Stellantis. La fabbrica ha creato una nuova linea per il montaggio delle batterie sui veicoli elettrici, assumendo 63 nuovi dipendenti. Dall’impianto più importante, quello aperto alla metà degli anni novanta dalla Volkswagen a Palmela, nel sud del Portogallo, sono usciti 235mila veicoli, il 6,7 per cento in più rispetto all’anno precedente. La casa automobilistica tedesca ha assicurato che la fabbrica non sarà interessata dalle misure d’austerità decise per superare la crisi attuale.

Secondo l’Associação automóvel de Portugal (Acap), nei primi undici mesi del 2024 la produzione in Portogallo è arrivata a 307.209 veicoli, il 2,7 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quasi tutto, il 97,9 per cento, è destinato all’esportazione, soprattutto in Europa, che assorbe l’86,3 per cento del totale: il 23,1 per cento va in Germania, il 13,6 per cento in Italia, l’11,2 per cento in Francia e il 10 per cento in Spagna. Oltre alle fabbriche di Mangualde e Palmela, in Portogallo si producono veicoli anche a Vila Nova de Gaia (Caetanobus), Ovar (Toyota) e Tramagal (Mitsubishi).

C’è poi il settore dei componenti per auto che, secondo l’associazione di categoria, l’Associação de fabricantes para a indústria automóvel (Afia), comprende più di 350 aziende, ha un giro d’affari che nel 2023 è stato di 14,3 miliardi di euro (poco più del 5 per cento del pil nazionale) e dà lavoro a 64mila persone (il 9 per cento dei dipendenti dell’industria nel paese). Anche in questo caso la produzione è destinata in gran parte all’esportazione nel resto d’Europa. Come ha dichiarato José Couto, il presidente dell’Afia, “il 98 per cento delle automobili prodotte in Europa contiene almeno un componente realizzato in Portogallo”.

La crescita del settore dell’auto portoghese non è semplicemente merito del prezzo dell’energia e del costo del lavoro più bassi rispetto a paesi come la Francia o l’Italia. Dietro c’è anche una programmazione politica in grado di attirare gli investimenti. Lo dimostra il caso dell’Autoeuropa, il complesso della Volkswagen a Palmela. Alla fine degli ottanta il Portogallo era in lizza con la Spagna, l’Irlanda e altri paesi interessati al gruppo tedesco, che voleva aprire una nuova grande fabbrica fuori dalla Germania, in società con la Ford. La scelta ricadde sul Portogallo e in particolare sulla zona di Palmela, vicina al grande porto di Setúbal, ideale per la spedizione dei veicoli.

Contarono ovviamente gli incentivi fiscali, finanziari e di altro tipo offerti dal governo di Lisbona, che seppe sfruttare il fondo europeo di sviluppo regionale e il fondo sociale europeo per mettere a disposizione infrastrutture moderne e promuovere l’aggiornamento della manodopera. Una condizione imposta agli investitori fu quella che almeno il 40 per cento della produzione dell’impianto fosse fatta con componenti locali, una clausola voluta per lanciare il settore nazionale dei componenti per veicoli e formare un vero distretto dell’auto. Il modello è stato seguito anche in altri settori.

Nel 2024, scrive la Reuters, l’Agência para o investimento e comércio externo de Portugal (Aicep), l’agenzia statale che promuove investimenti per attività produttive orientate all’esportazione, ha firmato un numero di accordi dieci volte superiore a quello del 2023. Attraverso incentivi di vario tipo nel 2024 sono arrivati investimenti per 420 milioni di euro, contro i 41 dell’anno precedente.

L’industria automobilistica della penisola iberica, tuttavia, non può certo dirsi al riparo dalla crisi, innanzitutto perché dipende dalla sorte dei grandi mercati europei e poi perché i costruttori guardano ad altri paesi che offrono condizioni molto favorevoli, come il Marocco (qui, per esempio, la Stellantis produrrà il motore per le sue auto ibride e la nuova Multipla, mentre già costruisce la Topolino). La Spagna ha chiuso il 2024 con 2,3 milioni di veicoli prodotti, il 3,7 per cento in meno rispetto all’anno precedente, e ha dovuto cedere al Brasile l’ottavo posto nella classifica dei maggiori costruttori mondiali.

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In Portogallo comincia a perdere terreno la produzione di componenti: secondo l’Afia, nei primi undici mesi del 2024 il settore ha registrato un calo delle esportazioni pari al 5,9 per cento rispetto allo stesso periodo del 2023. In Portogallo gli esperti del settore automobilistico prevedono una stagnazione di almeno due anni. Intanto arrivano notizie di licenziamenti e chiusure. Per esempio il fallimento della Cablerías, un’azienda di componenti per automobili che dava lavoro a 250 persone. Nello stesso settore ha annunciato settecento licenziamenti la spagnola Ficosa, mentre potrebbero tagliare posti di lavoro anche la giapponese Uchiyama e la spagnola Gestamp.

In un’intervista al quotidiano economico Negocios, Roberto Gaspar, segretario generale dell’Associação nacional das empresas do comércio e da reparação automóvel (Anecra), delinea un quadro poco incoraggiante per il futuro del settore automobilistico portoghese ed europeo, assediato dalla concorrenza cinese e alla prese con l’avvento del motore elettrico e con le regole di Bruxelles sulla decarbonizzazione.

La Commissione europea ha deciso che nel 2035 non si potranno più vendere veicoli con motore a combustione, ma i problemi cominciano già nel 2025: da quest’anno i costruttori dovranno affrontare nuovi limiti per le emissioni, fatto che li costringerà ad aumentare in modo significativo il peso delle elettriche per evitare il pagamento delle relative sanzioni (95 euro per ogni grammo di anidride carbonica in eccesso). Secondo alcune stime, il costo per le aziende potrebbe essere di quindici miliardi di euro. C’è il rischio, inoltre, di dover pagare milioni di euro ai concorrenti cinesi per comprare crediti di carbonio.

A quel punto, sostiene Gaspar, le case automobilistiche potrebbero decidere di ridurre la produzione pur di rispettare i limiti, perché nella situazione attuale pensare di aumentare l’elettrico è “poco probabile, è un obiettivo impossibile in tempi brevi”. La nuova tecnologia non ha prezzi in grado attirare i consumatori con redditi medi e bassi, la sua diffusione richiede ancora l’uso degli incentivi e inoltre in molti paesi mancano le infrastrutture adatte. Le auto elettriche hanno peraltro bisogno di linee di montaggio completamente diverse e di un personale con la formazione adeguata. A questo va aggiunto un particolare poco incoraggiante per le aziende che producono componenti: “Un’auto con motore a combustione”, osserva Gaspar, “contiene più o meno duemila pezzi, mentre quella elettrica ne ha una ventina”.

Su tutto pesa la concorrenza cinese: le auto prodotte nel paese asiatico si diffondono nel mondo e, soprattutto, hanno ormai scacciato gli occidentali dall’enorme mercato interno della Cina. Tutto questo, conclude Gaspar, non può certo essere fermato con i dazi di Bruxelles, anche perché i costruttori cinesi “hanno margini tali che possono permettersi di vendere a prezzi ancora più bassi”. La soluzione sarebbe puntare sulla tecnologia e sull’automazione, in modo da ottenere i livelli di produttività e di innovazione necessari per reggere il confronto con la Cina. Ma su questo terreno il ritardo accumulato dall’Europa non sembra colmabile in tempi brevi. Quanto meno senza una politica industriale di respiro europeo.

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Questo testo è tratto dalla newsletter Economica

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