Gaza, l’incendio degli occhi | il manifesto

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È molto difficile, anzi è impossibile! Per questi motivi va capovolto il mondo com’è. Per dire che l’impossibile accadrà se ancora «resteremo qui, come un peso sullo stomaco… lottando in stracci», che l’impossibile aiuterà la speranza se ancora «su questa terra esiste qualcosa per cui vale la pena vivere», per dire che dalle pratiche del possibile finora non è venuta alcuna giustizia.

Ormai da più di un intero anno, giorno e notte senza interruzione, missili intelligenti di tre tonnellate sventrano le case, ospedali, scuole e luoghi di culto. Missili stupidi che bruciano vivi gli esseri umani sfollati negli accampamenti.

Moltitudini di grandi e piccoli in perenne corsa da nord a sud, da sud al centro e di nuovo a nord, ovunque vengono spietatamente trucidati. Immagini spaventose che gelano il sangue, annebbiano la mente, frantumano l’anima, polverizzano i sensi e fanno soccombere le parole. Nessun articolo potrà contenere tutto il racconto. Le parole indietreggiano nell’abisso dove nascono di fronte al dolore che diventa muto ed inenarrabile.

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Un popolo viene sradicato dalla sua terra, saccheggiato del suo nome, spogliato della sua storia e cultura, e sottoposto ad uno sterminio diluito nel tempo per compiere la de-palestinizzazione della Palestina.
Come si fa a raccontare il dolore e la disperazione che dura così a lungo? Come si fa a raccontare la morte per fame e sete o per mancanza di un posto in cui curarsi? Come si fa a raccontare la solitudine di un popolo che sprofonda nella morte sotto gli occhi di tutti?

Fiumi di parole versate per distogliere l’attenzione dalla tragedia o per giustificarla. Un esercito di addetti, di esperti, di conventicole che plasmano l’opinione pubblica, e la rendono indifferente o conformista, l’invitano ad affidarsi ad una cerchia «superiore» di individui onniscienti che esercitano il potere.
Scopriamo che il mondo è più che mai affollato di professionisti, consulenti, aspiranti a qualche privilegio, insomma di «intellettuali» il cui compito principale consiste nel fornire credibilità alla menzogna in cambio di consistenti profitti. Grandi poteri, visibili e non, hanno cooptato intellighenzie a destra e a sinistra in misura straordinaria.

Quando si accetta di mentire a sé stessi, alla fine si ricorre a tutte le categorie di pensiero per giustificare e auto-giustificarsi, compresi gli stereotipi e le leggende. «La Palestina terra senza popolo e gli ebrei popolo senza terra» ad esempio. Ma «i fatti sono al di là dell’accordo e del consenso… I fatti sgraditi possiedono un’esasperata ostinazione che può essere scossa soltanto dalle pure e semplici menzogne» (Hanna Arendt).
La Palestina, di ieri e di oggi, ha messo a nudo l’ipocrita illusione, le falsità create ad arte dalle «civiltà superiori», dai baluardi della democrazia e dei diritti umani, le irrilevanze del diritto internazionale quando non è funzionale agli imperi. Nonostante i suoi mille cantori, il colonialismo genocida resta nudo e ridicolo quanto il superbo tiranno dell’antica fiaba.

Ali Rashid, ex primo segretario Ambasciata palestinese in Italia

***

Gaza, una donna porta la mano al petto (foto di Mohamad Al Baba)

Raccogliamo e diffondiamo ciò che il mondo vorrebbe disperdere

di Associazione gaza_ fuorifuoco_palestina

Con il progetto fotografico gaza_ fuorifuoco_palestina, tentiamo una riflessione su potere e fragilità delle immagini negli scenari coloniali contemporanei, a partire dal genocidio in atto a Gaza e Cisgiordania.

In assiduo contatto con fotografi e giornalisti palestinesi, abbiamo iniziato a raccogliere la moltitudine di immagini che vengono dai territori rasi al suolo dal paese-caserma chiamato Israele, fortilizio assistito dagli Usa e dall’Europa nella sua marcia predatoria verso terre altrui, in Palestina e oltre. Chi scatta fotografie nei luoghi della devastazione è considerato un testimone scomodo, un occhio disobbediente alla cecità, quindi da eliminare: oltre duecento sono stati finora i fotografi e giornalisti cercati e uccisi in un anno (diciannove nei trent’anni precedenti), oltre centottanta sono stati incarcerati, di alcuni non si conosce la destinazione (l’accusa è «violazione della libertà di parola e incitamento al terrorismo»). Da tredici mesi «alla stampa internazionale è vietato mettere piede a Gaza», se non sotto il controllo dell’Idf, gli intenzionali black-out e la sospensione degli accessi alla rete tacitano ancora di più gli osservatori.

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Ogni immagine che archiviamo porta con sé il rischio di essere un ultimo documento, e di essere costato una vita. Custodire un’immagine sull’altra, diffonderla perché sia vista e commentata, a smentire quotidianamente il racconto univoco dei media militarizzati, è tra i nostri impegni. Mentre mostra il dolore del singolo e della comunità a cui appartiene, mentre registra il silenzio dei corpi inanimati, di case, tende, scuole e ospedali abbattuti, la fotografia presa sul campo rivela la realtà censurata o riformulata dagli apparati strategico-informativi di Tel Aviv. Rivela lo scandalo che separa l’accaduto sotto gli occhi del testimone, dal creato in studio dall’esperto seduto a distanza: veicolare immagini favorevoli all’aggressore, cancellando o svuotando di senso quelle dell’aggredito, è il compito di migliaia di tecnici, impiegati e studenti universitari, ricercatori e hacker reclutati dalle agenzie di intelligence israeliane e statunitensi. Il loro lavoro è capillare, pagato con gigantesche risorse ma non del tutto invincibile, anche una manciata di fotografie o parole può frenarlo, se non interromperlo. Un archivio vivente, cioè riluttante alla polvere e all’impotenza, può far inciampare la disinformazione imperante facendosi luogo d’azione, comportandosi da raccolta documentale outsider, estranea e disinteressata alla norma, similmente al «ruolo pubblico che l’intellettuale in quanto outsider, ‘dilettante’ e contestatore dello status quo, deve avere» – scrive E. W. Said – chi cerca la verità».

Occorre provarci, nonostante l’esiguo perimetro delle nostre forze: con noi l’indignazione internazionale contro la feroce codardia dei forti, contro quel «portare Star Wars nella realtà» (secondo lo slogan coniato dall’industria di guerra per celebrare i sistemi di intercettazione laser «Lite Beam»), contro chi vuole costringerci a guardare il mondo solo attraverso il letale mirino delle armi.

«Fuori fuoco» è il termine con cui la fotografia può sperimentare la sua imprecisione, la sua potenziale avversione alle tecniche che «educano la platea al consenso», riuscendo ad includere l’errore tecnico o compositivo. All’opposto della nitidezza assoluta, richiesta dal canone professionale del «buon prodotto da vendere» (le redazioni giornalistiche non esigono altro che l’immagine merce), ogni dettaglio sfuocato procede gradualmente verso la sua dispersione, fino a definizioni impalpabili ma dagli esiti inaspettati, talvolta potenti. Il non chiaro, lo sfuggente in fotografia rasenta l’intensità minima assegnata a parte dell’umano, come ricorda Alan Badiou (nel 2012) e in precedenza E. W. Said (nel 1986): il primo scrive «In ogni realtà vi sono esseri che esistono ma ai quali il mondo (…) conferisce un’intensità di esistenza minimale. Qualsiasi affermazione che si voglia creatrice trova il proprio fondamento nell’atto di reperire gli inesistenti del mondo è dall’inesistente che bisogna imparare», il secondo sembra anticiparlo «Dal 1948 abbiamo una esistenza minore. Molta parte della nostra esistenza non è stata documentata, molti di noi furono uccisi, fummo colpiti da lutti, azzittiti senza lasciare traccia, l’immagine che ci rappresenta ci diminuisce».

Se quanto riceviamo dai fotografi palestinesi è realizzato con una messa a fuoco precisa, chiara e inequivocabile, perché adottare un termine, «fuori fuoco», che esula dalla nitidezza? Ad evitare l’equivoco, si può dire che le fotografie da Gaza celano al loro interno una materia complessa, così possente da non poter essere assimilata alla merce costruita e veicolata dal fotogiornalismo tout court, ma ad una deviazione nata per l’eccezione da cui provengono. Siamo abituati a ricevere innumerevoli immagini drammatiche, spettacolari, gridate o inoffensive, promozionali, da dispositivi domestici o tascabili, da schermi che occupano tutto lo spazio delle nostre giornate, ci spingono alla commozione, al pianto, alla condivisione.

Eppure in esse vi è già un antidoto, un suggerimento a lasciar perdere: perché far loro spazio nella nostra vita, scomodarla, renderla più faticosa? Raggiungono le nostre case ma in breve diventano aliene, possiamo disfarcene, non sapendo più a cosa fanno riferimento, slegate come sono una dall’altra, mancanti come sono di ragioni durevoli. La fotografia da Gaza non bada esclusivamente al futuro, guarda prepotentemente all’oggi, all’urgenza di dire subito, qui ed ora, cosa succede, ponendosi come errore del fotogiornalismo fondato su canoni che non contemplano durata ma sparizione.

Il persistere di Gaza, la necessità intrinseca di durare nei nostri occhi e di far muovere le nostre mani, riesce perché fa proprio il principio di inesattezza, di inadeguato al racconto imperiale che reputa inutile, quindi sacrificabile, l’esistenza palestinese e dei suoi sostenitori. Nell’errore e nella tenacia di quel «qui resteremo» ha rifugio amichevole la resistenza allo svanire. In fotografia e nel reale, dovunque sia messa a rischio ogni singola vita dall’israelizzazione del mondo.

Gaza, lenzuolo copre un corpo, (foto di Abdul Akim Khaled Abu Rayash)

Qui resteremo, fotografie da Gaza e Cisgiordania in mostra a Massa Carrara

Noi resteremo qui:/ come un peso sullo stomaco,/ affrontando la fame/ lottando in stracci…(Tawfiq Zayyad) Fino al 26 gennaio 2025 a Massa Carrara (Salone degli Svizzeri di Palazzo Ducale) è ospitata la mostra «Qui resteremo, fotografie da Gaza e Cisgiordania» accompagnata dalla ristampa di Kufia, matite italiane per la Palestina del 1988. Il progetto è curato dall’Associazione gaza_fuorifuoco_palestina in collaborazione con Cgil Toscana e il patrocinio della Provincia di Massa Carrara. La mostra raccoglie 40 immagini di Abdul Akim Khaled Abu Rayash, Issam Rimawi, Muhannad Abdulwahab, Mahmoud Elyan, Mahmoud Illean, Mohamad Al Baba, Omar Abu Nada, Musa Al-Shaer, Wala Hatem Sabry, Hashem Zimmo(e di altri fotografi palestinesi) seguite da immagini di Isabella Balena, Massimo Berruti,Antonio Biasiucci, Francesco Cito, Patrizio Esposito, Oreste Lanzetta e Alessio Romenzi, realizzate prima dell’ottobre 2023.

Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 

Il catalogo della mostra ospita una postfazione di Rossano Rossi, segretario della Cgil Toscana, stralci poetici da La terra più amata (a cura di Wasim Dahmash, Tommaso Di Francesco e Pino Blasone, il manifesto 1988-2024), e alcune pagine dedicate alle edizioni 1988 e 2002 di Kufia (con tavole di Botsos, Vera Tamari, Rula Halawani, David B., Jean Lamore, Oreste Zevola, Gipi.

Le tavole di Kufia sono opera di Igort, Andrea Pazienza e Marina Comandini, Guido Crepax, Sliman Mansour, Giuseppe Palumbo,José Muñoz, Daniele Scandola, Massimo Giacon, Magnus, Milo Manara, Lorenzo Mattotti, Oreste Zevola, Arnon Ben-David, David Reeb, Taleb Dweik, Tayseer Barakat, Nabil Hanani, Vauro, Altan, Vincino, e furono edite dal Comitato Bir-Zeit, l’Alfabeto urbano e Cuen.I testi sono di Stefano Benni e Guido Piccoli. La stampa delle fotografie in mostra è stata eseguita da Fineart Lab di Luigi Fedullo, Napoli, il montaggio della sequenza video è stata realizzata da Cyop&Kaf, ogni altro allestimento è stato curato dall’Associazione gaza_fuorifuoco_palestina. Per info su mostra, catalogo, cartoline e altro materiale edito, scrivere a gazafuorifuoco@gmail.com

www.fuorifuoco@gmail.com è l’indirizzo web dell’associazione, le pagine saranno disponibili a breve.

Gaza, folla accorsa intorno ad un’auto colpita da un drone (foto Hashem Zimmo)

Un lavoro in fieri

Il lavoro di archiviazione delle fotografie finora ricevute, compresi i nomi degli autori, i luoghi, le date e gli avvenimenti a cui fanno riferimento, è lento e incompleto. Le ragioni sono evidenti: la difficoltà dei rapporti diretti con i fotografi, le condizioni drammatiche in cui operano, l’instabilità delle connessioni internet, gli spostamenti repentini e la scarsità di risorse, non permettono di raccogliere i dati necessari alla loro registrazione definitiva. A risentirne sono anche la mostra «Qui resteremo» e il catalogo che l’accompagna: in mancanza di didascalie accurate delle singole immagini si è preferito adottare, per i crediti redazionali e le comunicazioni esterne, il limitato elenco degli autori accertati. L’aggiornamento dei dati sarà segnalato nelle ristampe del catalogo e nell’ampliamento della mostra originaria, così nelle future pagine web del nostro progetto.



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