La guerra non fa bene all’economia. Le lezioni di Panetta, Putin e Cavo Dragone

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C’è un luogo comune che riaffiora carsicamente nel dibattito pubblico secondo cui la guerra fa bene all’economia. In altri termini, sempre secondo queste teorie che sono al limite del complottismo, uno stato decide di invaderne un altro perché è un modo abbastanza semplice per risollevare il pil, aumentare l’occupazione e benessere per i propri cittadini. Conterebbero in tal senso le grandi spinte esercitate da quello che viene denominato complesso militare-industriale – ossia l’insieme delle società che producono armi e le forze armate. Ci sono tuttavia tre storie che nelle ultime 24 ore sfatano questo luogo comune. Si badi bene, qui non si vuole negare il fatto che i conflitti spesso finiscano per arricchire qualcuno (le società suddette, ovviamente) ma che essi siano un toccasana per l’economia. Quel poco che è sicuro è che le guerre impoveriscono molti, se non tutti. Per dimostrarlo basta mettere in fila dati, parole e opere di tre personaggi che non potrebbero essere più diversi: il governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta, il presidente della Russia, Vladimir Putin, e l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, neopresidente del Comitato militare della Nato.

Il governatore di Bankitalia ha tenuto ieri sera un discorso illuminante sugli effetti dei conflitti sull’economia mondiale. Dove dice chiaramente – e lo dimostra numeri e tabelle alla mano – che la guerra rappresenta una forma di sviluppo al contrario e non può generare prosperità. Più precisamente: “La produzione di equipaggiamenti bellici non contribuisce ad aumentare il potenziale di crescita di un paese. Lo sviluppo deriva dagli investimenti produttivi, non dalle armi. Non a caso, negli anni trenta, John Maynard Keynes proponeva di incrementare massicciamente la spesa pubblica per investimenti come soluzione alla depressione economica negli Stati Uniti, suggerendo al presidente Roosevelt di concentrarsi su “l’ammodernamento delle ferrovie”. D’altra parte, è sbagliato attribuire alla spesa militare il merito del progresso tecnologico. È la ricerca scientifica a stimolare l’innovazione. L’investimento militare può generare innovazione se impiegato nella ricerca. Ma non è necessario ricorrere alla guerra per questo scopo: le tecnologie sviluppate per scopi militari diventano progresso solo quando trovano poi impieghi civili”. E ancora: “Nei paesi coinvolti in un conflitto, la guerra danneggia gravemente i fattori essenziali per la crescita. Le ostilità distruggono il capitale produttivo – infrastrutture, macchinari e materie prime. Causano vittime soprattutto tra le nuove generazioni e piegano alle esigenze belliche le opportunità di apprendimento e la formazione di una forza lavoro qualificata. Ciò riduce la disponibilità e la qualità del “capitale umano”. Inoltre, le guerre spesso erodono il capitale civico, indebolendo la coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni. Lo sforzo bellico sostiene la domanda aggregata e può stimolare l’innovazione, ma
distorcendone gravemente le finalità. I benefici economici sono però transitori e non eliminano la necessità di riconvertire l’economia una volta concluso il conflitto, anche nei paesi coinvolti che non abbiano subito danni diretti sul proprio territorio. L’alta inflazione e il crollo del Pil che spesso caratterizzano le fasi belliche sono i segni dei danni che i conflitti provocano al tessuto economico”.

La condizione attuale della Russia è un esempio pratico di quello che dice Panetta. Se guardiamo ai numeri generali, l’economia russa ha finora retto l’impatto della guerra: il pil ha chiuso il 2022 in negativo (-2,1%) e in positivo (+3,6%) il 2023. Tuttavia il prezzo di questa resilienza lo stanno pagando i cittadini russi perchè se si va a controllare la composizione della spesa pubblica, si vede come l’aumento spropositato della spesa militare (che tiene a galla il pil) è bilanciato dalla riduzione delle spese sociali, soprattutto quelle per la sanità e l’istruzione. In altri termini, più missili significano meno libri e meno ospedali per i moscoviti. Senza dimenticare che fra feriti e morti la guerra di Putin in Ucraina ha sottratto alla forza lavoro più di 700mila persone. Poi, la Russia sta soffrendo un forte rialzo dell’inflazione (+9,5% a fine 2024) che, come si sa, è una tassa iniqua che viene pagata soprattutto dalla povera gente. Infine, le casse statali si stanno prosciugando per lo sforzo militare. Il National Wealth Fund – una specie di salvadanaio nelle piene disponibilità di Putin – nel solo 2024 ha bruciato un terzo delle attività liquide, addirittura le ha dimezzate da inizio guerra. Tanto che la governatrice della Banca di Russia Elvira Nabiullina ha pronosticato: “Nel peggiore dei casi, i soldi potrebbero finire già quest’anno”.

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Infine a mettere in guardia dai mali della guerra è anche chi non ti aspetti, chi teoricamente dovrebbe spingere per farla. In un’intervista al Corriere l’ammiraglio Cavo Dragone ha avvertito dei costi esorbitanti di una guerra: “La pace e la sicurezza non sono gratis. Ma la guerra ha costi immensamente superiori”. Motivo per cui invece che aprire conflitti, si dovrebbe puntare sull’equilibrio della deterrenza, vecchio principio base della Guerra Fredda. “Dovremmo spiegare agli italiani quanto costa la pace, avere una deterrenza che imponga all’ipotetico avversario di non mettere in atto determinate misure perché sconveniente per lui. Quanto costa? Tanto, lo sappiamo. Quanto costa la guerra? Cifre immensamente superiori rispetto al costo della pace. Probabilmente il cittadino non lo sa. Cerchiamo di convincerlo che siamo in pericolo. Perché lo siamo, la minaccia c’è. Il presidente Putin non si è fermato all’annessione della Crimea del 2014”. Meglio quindi investire sulla Difesa in maniera preventiva, in modo da sconsigliare al Putin di turno di tentare improbabili invasioni, che invece farsi cogliere di sorpresa dalle spese immani di un conflitto. Perché da una guerra non c’è proprio nulla da guadagnare.



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