Da Biden a Trump, la menzogna del primato economico Usa

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«Molti credevano che l’economia cinese avrebbe superato quella americana alla fine del decennio. Secondo le attuali predizioni non ci sorpasseranno mai». Joe Biden si congeda dalla presidenza degli Stati uniti con una dichiarazione altamente patriottica e spudoratamente falsa.
Come mostrano le statistiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, calcolato in termini di parità dei poteri d’acquisto il Pil cinese è al di sopra del Pil statunitense già da quasi un decennio, e il divario continua ad aumentare. Senza nemmeno bisogno di contare le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao, nel 2024 la Cina ha oltrepassato i 37 mila miliardi di dollari, mentre gli Stati Uniti non hanno ancora raggiunto i 30 mila miliardi.

A ripetere la menzogna dell’inarrivabile primato economico americano Biden non è certo lasciato solo. Da questo punto di vista, democratici e trumpiani cantano la stessa messa, ben coordinata. È un po’ come se avessero in mente la vecchia massima nazista, secondo cui ribadire di continuo una colossale bugia finisce per renderla credibile.

In effetti è esattamente questo lo scopo obbligato dei vertici statunitensi. Bisogna diffondere il convincimento che l’economia americana non soltanto sia primatista oggi, ma soprattutto sia destinata a crescere più di tutte le altre in futuro.

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Il motivo di questa ossessione verso la crescita attesa è in fondo semplice. Gli Stati Uniti continuano ad accumulare un pesante debito verso l’estero. Il passivo netto americano ha superato i 23 mila miliardi di dollari e corre impetuoso verso la soglia dell’ottanta percento del Pil.
In una situazione del genere, l’unico modo che un debitore ha per rassicurare i creditori è diffondere fiducia nella mirabile crescita del suo reddito futuro e delle sue connesse capacità di rimborso dei prestiti. Finché i creditori si lasciano ammaliare dall’ottimismo del debitore, le erogazioni continuano e la crescita prosegue. E se qualche avveduto fa notare che il debito sta pericolosamente aumentando più del reddito, gli altri prontamente lo zittiscono.

Così funziona la propaganda economica di questi anni. Più di qualsiasi altro regime di accumulazione capitalistica, quello del debito statunitense è fondato su una granitica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’America.

Ecco perché Trump non ha alcuna intenzione di correggere le bugie del suo predecessore. Anzi, il suo aperto proposito è di alimentare uno sconfinato entusiasmo sulla pioggia di ricchezza futura attesa dal paese. A tale scopo il nuovo presidente insiste su una doppia strategia: rimuovere tutti i lacci e i lacciuoli residui che frenano il libero sprigionarsi delle forze del capitale dentro i confini nazionali, e al contrario porre ostacoli e veti sempre più stringenti alle transazioni d’oltreconfine. Un ossimoro “liber-protezionista” che per adesso si vende bene.

Il trumpismo di ritorno pompa i mercati, accende gli animal spirits dei padroni americani e rilancia nuovamente le aspettative di crescita. Il tutto aiutato dalla Federal Reserve: l’annunciato aumento dei tassi d’interesse statunitensi attira nuovi capitali di prestito da ogni angolo del pianeta. Certo, così il debito continua a crescere sempre più del reddito, ma chi se ne accorge: la gran festa è ripartita, sono già tutti ubriachi e nessuno ha voglia di attardarsi con le vecchie cassandre.

Eppure, quando l’impero edifica la sua potenza su una bolla speculativa sempre più grande e minacciosa, i rischi globali aumentano vertiginosamente. Pur di tenere a bada il divario crescente tra debito e reddito, i vertici dell’amministrazione americana non esitano a rendere il loro protezionismo sempre più militaresco e conquistatore.

Dalle mire sulla Groenlandia e su Panama, alla ritornante visione del Sud America come “giardino di casa”, all’obbligo per l’Europa di comprare beni e fonti di energia solo dagli Stati Uniti e a costi elevatissimi, fino alle pressioni sui capitalisti cinesi a cedere Tiktok e le altre aziende che abbiano osato penetrare in terra occidentale, non si tratta di mere provocazioni estemporanee, come ancora si attardano a credere le nostrane veline atlantiste. Piuttosto, è l’ennesima pioggia di messaggi cifrati: l’America vuol farci capire che il suo enorme debito è un problema non suo, ma del mondo.

Il guaio è che una parte del mondo la prende male e reagisce peggio, come ormai sappiamo. Non l’Italia di Giorgia Meloni, però. La premier è stata pure invitata alla cena di gala per l’insediamento di Trump. Un tempo si sarebbe detto che raccoglierà briciole. Oggi è fortunata se non le tocca pagare il conto.



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