Netanyahu sotto ricatto, stretto tra Hamas e la destra messianica

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L’accordo per il cessate il fuoco a Gaza fa fibrillare il governo Netanyahu. A mettersi di traverso è la destra messianica, quella nazionalreligiosa di Smotrich e quella suprematista di Ben Gvir – che ha già minacciato le sue dimissioni – decisamente contrarie alla fine delle ostilità.

Per queste formazioni, il compimento della solenne promessa di Netanyahu dopo il 7 ottobre – distruggere totalmente Hamas – è fondamentale per mantenere l’appoggio a Bibi. I due partiti hanno il loro bacino di consenso nel movimento dei coloni religiosi e la loro teologia politica – fondata su possesso dell’intera Terra di Israele, nella sua vasta e indefinita accezione biblica, come condizione della Redenzione, accelerata dal solo “stare” su quella stessa terra intrisa di memoria religiosa – non prevede compromessi. Nemmeno tattici.

Tradimenti divini

Come ogni altro movimento fondamentalista, quello dei coloni religiosi considera non negoziabile ciò che ritiene nell’esclusiva disponibilità divina, come il possesso di Eretz Israel: ogni passo in quella direzione, sostiene la loro credenza, bloccherebbe la venuta del Messia.

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Non sbarazzarsi del Nemico che rivendica quella stessa terra, non cercare di colonizzare quel che resta di “Giudea e Samaria”, nomi biblici dei territori occupati, o di Gaza, che ambiscono a rioccupare dopo lo strappo deciso da Sharon, è un «tradimento».

La destra messianica si dice disposta a uscire dal governo, piuttosto che accettare l’accordo con Hamas. Digeribile solo a patto che, dopo aver ottenuto il rilascio degli ostaggi, preoccupazione secondaria rispetto al possesso della Terra, Netanyahu riprenda la guerra e completi l’opera.

Smotrich chiede un impegno scritto in tal senso. Intento indicibile che, se accolto pubblicamente dal pur spregiudicato e simpatetico Bibi, manderebbe all’aria la già fragile intesa raggiunta. Netanyahu può farla passare alla Knesset grazie a apporti esterni, ma l’attuale maggioranza avrebbe difficoltà a reggere. E una crisi senza rete sarebbe aperta a ogni esito. Da qui il duro braccio di ferro tra Bibi e i suoi alleati, a loro volta irritati dalle giubilanti reazioni di Hamas.

Un panorama di macerie

Nonostante gli indubbi successi sul terreno bellico di Tsahal, e il crollo delle prime linee dell’Asse della resistenza guidato dall’Iran, Hamas presenta, infatti, la tregua come un’indubbia vittoria militare e politica. Eppure, il gruppo è molto indebolito: i pesanti colpi inferti da Israele hanno decapitato i suoi vertici politici e militari, falcidiato gli effettivi. Gaza, poi, è un panorama di macerie, la popolazione è stremata da bombardamenti e condizioni di vita difficilissime.

La scelta “sacrificale” imposta da Yahya Sinwar dopo il 7 ottobre, è stata quella di immolare i palestinesi alla causa di Hamas. In una logica, ancora una volta politica-religiosa, in cui a contare è solo la volontà divina, scrutata attraverso il manifestarsi di segni sul campo. “Segni” che ora dicono che , sia pure in situazioni difficilissime, Hamas è sopravvissuta. E, per i suoi leader e i suoi seguaci, la volontà di Dio è la sola cosa che conta.

Resistere un momento di più di quanto avrebbero fatto gli israeliani: questo era l’obiettivo. L’accordo sancisce che Hamas ci è riuscita. Oltre, non poteva spingersi. Ora intende riemergere dai tunnel, mostrando che l’Idf è riuscito a distruggere solo in parte la sua struttura, militare e logistica. Uscire perché non solo non si può sopravvivere più a lungo sotto la Striscia, ma perché, senza riemergere dal sottosuolo, il messaggio, il controllo, l’influenza, dell’organizzazione svaniscono.

Tanto più per un gruppo che ha una simile fisionomia politica e religiosa. La tregua consente all’organizzazione di ritessere, sia pur faticosamente, i legami spezzati con la destrutturata società gazawi, di raccogliere le molte disponibilità a entrare nel movimento di migliaia di giovani destinati a colmare i vuoti lasciati dalle ingenti perdite militari subite nel conflitto.

Giovani carichi di rabbia e rancore, per aver visto le loro case ridotte in polvere, le loro famiglie distrutte o segnate dai lutti. Vittime che Hamas promette esplicitamente di «non dimenticare» e di «vendicare», nell’intento di saldare scelte tattiche a prospettive strategiche.

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In una simile realtà, in entrambi i fronti estremi, l’abbandono del conflitto è equiparato al tradire la causa.

Scendere a patti con l’Anp

Hamas sa che, per non non essere totalmente esclusa da Gaza, come chiede Israele e vuole l’America, dovrà scendere a patti con l’Anp, limitandosi a inserire qualche suo esponente, più o meno vicino al movimento, nell’amministrazione che dovrebbe governare la Striscia. Sente ancora di avere consenso, e lo farà pesare.

Nel frattempo si concentrerà nella ricostruzione dell’organizzazione. Se riuscirà a schivare la tempesta invocata biblicamente dall’estrema destra messianica, il nuovo fronte sarà, però, la Cisgiordania, dove ormai si è radicata e – grazie alla resistenza a Gaza e all’immobilismo del vecchio notabilato dell’Anp, ritenuto da molti palestinesi “collaborazionista”- vede lievitare il consenso. E’ in riva al Giordano che cercherà il futuro, in uno scenario segnato dalla conflittuale contiguità con i coloni degli insediamenti. Il materiale umano non manca, come si può vedere già a Jenin e Nablus.

Per Hamas quel che resta problematico è, semmai, il sostegno finanziario e in armi che, prima del 7 ottobre, veniva, rispettivamente, dal Qatar e dall’Iran. Problemi che cercherà di risolvere nel tempo, sfruttando le tante contraddizioni della regione. Magari contando su nuove protezioni sunnite. Per ora, sostiene, l’importante è «aver vinto».

Parole che, secondo gli attivisti messianici israeliana, hanno un amaro sapore di verità. E che Netanyahu cerca di esorcizzare, mostrando ancora una volta la mano dura con i palestinesi a Gaza e riversando la responsabilità dell’eventuale fallimento dell’intesa sulle spalle di Hamas.

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