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A proposito del disegno di legge di iniziativa che prevede l’introduzione del delitto di femminicidio, approvato lo scorso 7 marzo e in attesa di essere presentato in Parlamento, pubblichiamo di seguito, per l’interesse, un articolo del prof. Giovanni Fiandaca pubblicato, con lo stesso titolo, sul quotidiano Il Foglio di ieri, 13 marzo 2025. In attesa di ospitare sulla nostra Rivista contributi di commento, segnaliamo ai lettori l’autorevole intervento del prof. Fiandaca, che mira tra l’altro a stimolare un dibattito anche e proprio tra i professori di diritto penale. A tal proposito segnaliamo, tra gli interventi di professori apparsi nei giorni scorsi, un’intervista del prof. Vittorio Manes pubblicata sul Foglio l’11 marzo e un commento del prof. Marco Pelissero pubblicato su Otto discorsi diretti, rivista online dell’Università di Torino. Un commento del prof. Vincenzo Maiello, dal titolo “Effetto placebo”, è apparso sull’edizione cartacea del quotidiano L’Altravoce dell’8 marzo 2025
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1. La politica elude il problema della reale efficacia preventiva e orientativa della punizione e ingolfa sempre di più la macchina giudiziaria. Motivi per bocciare il nuovo reato. Premetto che ho motivo di presumere, anche da professore in pensione, che una buona parte degli altri professori di diritto penale sia contraria all’introduzione di un reato di femminicidio, specie secondo la configurazione contenuta nel ddl governativo. Ma questa contrarietà si inquadra – ho sempre motivo di supporre – in un orizzonte critico ben più ampio, che include il sempre più frequente uso del diritto penale come strumento di consenso politico o come mezzo pedagogico. Il fenomeno perdura da alcuni decenni. I motivi per cui va avversato sono molteplici, e peraltro condivisi dal prevalente numero degli studiosi di diritto penale che operano anche fuori dai confini italiani.
Provo a riassumerli, cominciando dal rilievo che la politica elude il problema della reale efficacia preventiva e orientativa della punizione innanzitutto per la seguente ragione: creando nuovi reati o introducendo circostanze aggravanti i politici di turno mostrano di rispondere in modo sollecito alle aspettative di protezione e alle paure dei cittadini. La pena come strumento di pronto intervento e ansiolitico sociale, per di più a costo zero. Mentre, escogitare strategie di prevenzione (di natura sociale, economica, educativa, ecc.) volte a incidere con maggiore efficacia sulle cause profonde dei mali da contrastare, presuppone capacità progettuali, competenze e risorse, sia economiche sia umane. Troppo complicato: assai più facile e rapido gonfiare la già obesissima massa degli illeciti penali, anche a costo di generare mostriciattoli legislativi. Tanto saranno poi i giudici a cercare di darvi un senso più o meno compiuto, e a doversi accollare la responsabilità (che viene loro così di fatto delegata) di contrastare le condotte indesiderate.
La delega alla giustizia penale, se è politicamente comoda perché deresponsabilizza il ceto politico, presenta per altro verso un serio inconveniente pratico: il continuo aumento dei reati ingolfa sempre più la macchina giudiziaria, contribuendo ad aggravare la lentezza dei processi. Una ulteriore ragione dell’uso smodato del penale è individuabile nella tendenza a sfruttarne il potenziale simbolico-comunicativo, come medium per rimarcare agli occhi dei cittadini l’importanza dei valori da tutelare e per promuoverne l’interiorizzazione nella coscienza sociale. Ma un simile impiego simbolico-promozionale merita di essere assecondato?
Non sono in realtà il solo a ritenere che il diritto penale, più che a promuovere il progresso culturale e morale, dovrebbe più laicamente servire a prevenire danni sociali, diagnosticabili come tali a prescindere da preferenze morali, eventualmente anche maggioritarie. In uno stato liberal-democratico è più coerente astenersi dall’assegnare alla repressione anche il compito di cercare di correggere o orientare inclinazioni etiche, disposizioni psicologiche, tipi di mentalità o atteggiamenti interiori. Non a caso, questa pretesa – peraltro illusoria – è storicamente tipica degli stati autoritari, che confondono legalità e moralità. In una società pluralista come la nostra, sarebbe costituzionalmente legittimo perfino seguitare a pensare che all’uomo spetti una posizione di supremazia rispetto alla donna: ciò che è vietato non è pensarla così, ma tradurre questa visione tradizionale in comportamenti violenti o comunque illeciti.
La pena carceraria non solo è da tempo in crisi, secondo il punto di vista maggioritario degli esperti, perché è ben lungi dal realizzare gli scopi a essa tradizionalmente attribuiti. Oggi se ne abusa irrazionalmente, sino al punto da indurre Papa Francesco a stigmatizzare la deriva punitivista cui in questi tempi sempre più si assiste. A ciò si aggiungano i fondati dubbi sulla compatibilità dell’ergastolo con l’articolo 27 della Costituzione. Si presume che la minaccia di una pena a vita possa davvero fungere da deterrente del femminicidio e assolvere una funzione pedagogica nei confronti di quanti non hanno ancora interiorizzato come valore la parità di genere e il rispetto della donna come persona titolare di eguali diritti? In una democrazia costituzionale degna di questo nome, convertire i maschilisti dovrebbe costituire un obiettivo da perseguire solo con la cultura, l’educazione, la promozione di condizioni ambientali più evolute nei contesti in cui perdurano visioni patriarcali. Per punire condotte aggressive ai danni delle donne, sono più che sufficienti le norme incriminatrici esistenti. Oltretutto, se fosse davvero necessaria una nuova incriminazione diversa dal generale delitto di omicidio, si dovrebbe per coerenza configurare una ulteriore e autonoma fattispecie per sanzionare l’omicidio motivato da omofobia, e così via.
2. Ma non basta. Se si entra poi nel merito della progettata fattispecie, ci sarebbe da mettersi le mani ai capelli. Un insulto ai princìpi di un diritto penale costituzionalmente orientato. Già a prima vista risalta la notevole indeterminatezza, esposta a obiezioni di incostituzionalità, della formulazione testuale della condotta punibile. Colpisce, non secondariamente, la declinazione in chiave psicologistica e di censura morale del disvalore del femminicidio, che si presume in ogni caso più grave di quello relativo all’omicidio comune. Come dovrebbe il giudice accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la motivazione discriminatoria o il sentimento di odio (della donna in quanto donna) sottostante all’atto omicidiario? Esistono criteri di giudizio sicuri in proposito? Temo che neanche il più esperto degli psicologi potrebbe distinguere con certezza le motivazioni suddette da motivazioni di altro tipo. È dunque da prevedere che l’accertamento giudiziario di così scivolose pulsioni motivazionali finirebbe, inevitabilmente, col risentire dei pregiudizi e delle impressioni soggettive di chi di volta in volta giudica.
3. Per tutte le ragioni fin qui esposte, la proposta conformazione del nuovo reato non può che andare incontro a una netta bocciatura. Almeno a giudizio di quanti difendono una concezione non opportunistica o non moraleggiante del diritto penale. E, a questo punto, azzarderei anche una provocazione (beninteso, senza alcun intento di prevaricazione o condizionamento di libere scelte dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale). Auspicherei cioè che l’opposizione critica nei confronti di questa ennesima strumentalizzazione politica del penale venisse manifestata una buona volta in forma visibile ed eclatante da parte della maggioranza dei professori in servizio, che ho motivo di supporre decisamente contraria a un delitto di femminicidio così concepito. Perché non protestare sospendendo per qualche giorno lezioni ed esami, organizzando manifestazioni pubbliche, levando la voce critica all’esterno dei circuiti accademici, analogamente a quanto fanno i magistrati per contrastare riforme loro sgradite? Forse qualcuno obietterà che reazioni di questo genere non sono compatibili con la dignità accademica. Ma è più dignitoso continuare a subire una politica penale che da professori consideriamo contraria a ogni principio, dando sfogo alle nostre critiche soltanto nelle pubblicazioni specialistiche?
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