“I soldi per i medici gettonisti? Andavano usati per assunzioni. In pochi vogliono stare nel pubblico: ci sono situazioni oltre la dignità e i professionisti se ne vanno”

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“Se c’è una volontà di salvare il Servizio sanitario nazionale, bisogna intervenire in modo deciso e drastico oggi. Dobbiamo far sì che la sanità pubblica torni ad essere attrattiva per i professionisti. È una volontà politica, vanno pianificati interventi nel breve, nel medio e nel lungo periodo. Altrimenti ci saranno conseguenze drammatiche: le cifre folli di soldi pubblici che stiamo spendendo per i gettonisti privati sono un esempio chiaro di che danni porti la mancata programmazione”. Per Alessandro Riccardi, presidente di Simeu, la società italiana medicina d’emergenza urgenza, e direttore del pronto soccorso dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, i numeri diffusi dal report di Anac non sono una sorpresa. Senza intervenire sull’attrattività del lavoro nel Ssn, migliorando stipendi e condizioni dei professionisti, era prevedibile immaginare che la spesa pubblica destinata ai costosi gettonisti delle cooperative sarebbe continuata ad aumentare. Lavorare come dipendenti negli ospedali, e in particolare nei pronto soccorso, è troppo faticoso e rischioso. Le risorse umane sono sempre meno e a pagare il conto di questa gestione emergenziale non sono solo le casse pubbliche, ma anche i pazienti, che si trovano di fronte a un sistema sempre più fragile, dipendente dalle cooperative. In un circolo vizioso che brucia risorse senza risolvere il problema.

Secondo Anac, nel solo 2024 la spesa effettiva per i gettonisti è stata di oltre 457 milioni di euro. Soldi che potevano essere investiti meglio?
Decisamente meglio, assumendo professionisti nel Ssn. Il problema è enorme e parte da lontano. Ora siamo in emergenza e quindi siamo costretti a prendere decisioni drastiche per salvare il sistema, quando si sarebbe potuto intervenire in maniera preventiva. Denunciamo da anni la carenza di personale. Il turnover è stato interrotto in maniera miope per cercare di risparmiare. Ma le uscite dei professionisti, non compensate da nuove assunzioni, hanno finito per diventare una spesa gravosa. Per mantenere in piedi il sistema, si è dovuto ricorrere ai gettonisti, con conseguenze drammatiche.

A queste condizioni le cooperative private sono un male necessario?
È innegabile che senza i gettonisti molte strutture non rimarrebbero in piedi. Solo in Liguria, per esempio, i pronto soccorso di Imperia e Sanremo. Ma i danni causati da questa situazione sono evidenti. Dei gettonisti che lavorano in pronto soccorso, solo una minoranza è specialista nell’emergenza-urgenza. Molti non hanno le competenze necessarie. Non garantiscono un livello di qualità di cura sufficiente. In pronto soccorso lo specialista fa la differenza: riesce a riconoscere le patologie e a capire quali pazienti devono essere ricoverati e quali invece possono essere dimessi precocemente. E questo porta anche a un contenimento della spesa pubblica. Dove ci sono prevalentemente gettonisti esterni, ci sono più ricoveri. Anche i gettonisti più validi non possono garantire una qualità adeguata. Fanno pochi turni al mese, magari tre o quattro notti di fila. Non conoscono i colleghi, né l’ospedale. E non hanno un rapporto diretto di responsabilità verso il direttore della struttura, quindi non c’è neanche il modo di controllarli.

I numeri suggeriscono che il decreto anti-gettonisti del 2023 non è stato in grado di bloccare il fenomeno. È d’accordo?
I medici si licenziano dai reparti in cui lavorano, per poi rientrare negli stessi ospedali come gettonisti. Siamo arrivati a un paradosso del genere. Il motivo è che non ci sono stati interventi reali per rendere più attrattivo il lavoro. Per questo il decreto non ha dato risultati. In pochi oggi vogliono lavorare nel pubblico e specialmente nei reparti di emergenza-urgenza. Nei pronto soccorso devono essere fatti degli interventi strutturali per incentivare il personale. In primis incentivi economici, reali e consistenti. Perché questo è un lavoro che non permette nessuna attività extra ospedaliera. Inoltre, è un lavoro usurante e come tale deve essere riconosciuto. Comporta quattro-cinque notti al mese di guardia attiva, in cui medici e infermieri fanno turni di 12 ore, completamente in piedi, senza alcun tipo di possibilità di riposo. E a questo si aggiungono i danni causati dalla moral injury.

Cosa intende?
Che non possiamo continuare a gestire 40 o 50 pazienti in barella. È un disastro dal punto di vista umano, etico e professionale. Dobbiamo interfacciarci quotidianamente con la perdita di dignità delle persone. I professionisti soffrono. È questo il moral injury: quando una persona si trova a dover far qualcosa che è contraria alla sua moralità. Il boarding provoca esattamente questo. Al posto di avere un paziente adeguatamente ricoverato in ospedale, lo vedi accampato su una barella, con altre 40 persone intorno. In totale sofferenza, per due o tre giorni. C’è un punto in cui il professionista non ce la fa più a sopportarlo, e se ne va.

In questo senso, la riforma della sanità territoriale, che ancora stenta a decollare, potrebbe aiutare ad alleggerire il peso sui pronto soccorso?
Sicuramente potrebbe darci una mano. Sappiamo che circa il 25% degli accessi, circa quattro milioni, sono non urgenti. Non li vogliamo chiamare impropri, perché si tratta in ogni caso di cittadini che non riescono a trovare una risposta adeguata nella sanità pubblica, e quindi vengono in pronto soccorso. In questo senso, una rete territoriale adeguata potrebbe ridurre il peso sull’emergenza-urgenza, soprattutto dei pazienti anziani, fragili e cronici, a cui serve un’assistenza continuativa per evitare che si riacutizzino. Inoltre, anche la presa in carico precoce dei pazienti dimessi dagli ospedali eviterebbe che questi debbano rientrare di lì a poco in pronto soccorso. Ma ancora la riorganizzazione del territorio è in ritardo, anche per via della grande carenza di infermieri che abbiamo in Italia. È più grave dei medici, che in realtà ci sarebbero, ma che non vogliono più lavorare nel pubblico, viste le condizioni che offre.

L’altra strada potrebbe essere ridurre i lunghi tempi d’attesa per esami e prestazioni?
Certamente anche l’effettivo funzionamento del decreto anti-liste d’attesa sarebbe un passo in avanti per alleggerire la pressione sui reparti di emergenza-urgenza. Il problema, anche qui, è trovare le risorse umane per farlo. Ci sono dei centri di prenotazione che consigliano direttamente al paziente di recarsi in pronto soccorso per fare un esame ritenuto urgente, visti i lunghi tempi di attesa. È indiscutibile che adesso i cittadini sanno che entrando in pronto soccorso, magari aspettando delle ore, saranno visitati, verranno sottoposti a una valutazione di laboratorio, una radiografia, un elettrocardiogramma. Se lo stesso cittadino sapesse che nel giro di una settimana, con maggiore semplicità e comodità, riuscirebbe a fare le stesse prestazioni, non si recherebbe in pronto soccorso. E gli specialisti dell’emergenza-urgenza non sarebbero costretti ad annaspare.



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