Spotify: pagati 10 miliardi di dollari nel 2024 all’industria musicale

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Spotify è una risorsa importante per l’industria musicale: lo scorso anno ha versato oltre 10 miliardi di dollari, la cifra annuale più grande di sempre da un singolo retailer, quale è il servizio streaming, al settore. Oggi il suo contributo ai ricavi globali della musica è di circa un quarto (poi ci sono le vendite fisiche, i tour, il merchandising eccetera) e da quando la piattaforma esiste il totale di pagamenti è arrivato a quasi 60 miliardi di dollari.

Eppure, a livello internazionale sono tornate le proteste da parte di artisti e autori sui livelli delle royalty che questi ottengono da Spotify, ritenuti insufficienti. Per questo l’annuale report Loud and Clear diffuso ieri, che offre tutti i dettagli su questi pagamenti, suona ancor più come una risposta alle associazioni che stanno contestando la società guidata da Daniel Ek.

Cresce il numero di artisti che generano royalty

Nel report si mostra come la situazione sia nettamente cambiata negli ultimi dieci anni: il numero di artisti che generano royalty a ogni livello (da 1.000 a 10 milioni di dollari all’anno) è almeno triplicato dal 2017, si legge. «Dieci anni fa, l’artista più popolare su Spotify generava poco più di 5 milioni di dollari. Oggi, ci sono oltre 200 artisti che hanno superato quella soglia». Inoltre, nell’ultimo decennio, «il 100.000° artista in termini di ascolti su Spotify ha visto le sue royalty moltiplicarsi di oltre 10 volte (da meno di 600 dollari nel 2014 a quasi 6.000 dollari nel 2024). Durante lo stesso periodo, il 10.000° artista su Spotify ha visto le sue royalty aumentare quasi 4 volte (da 34.000 a 131.000 dollari)».

Ma i pagamenti seguono la filiera

Dove sta quindi il punto? Intanto, quando si parla di pagamenti agli artisti c’è da considerare che ci si riferisce in realtà ai soldi che vanno agli aventi diritto sulle registrazioni, in particolare le case discografiche. Da queste, poi, una percentuale minore va agli artisti e dipende dai singoli contratti.

Non c’è, insomma, una somma fissa per numero di streaming. Spotify trattiene il 30% dei suoi ricavi da abbonamenti e pubblicità per poi versare all’industria musicale il 70%. Di qui la successiva suddivisione che passa per diversi passaggi: alla fine ciascun artista ottiene una quota a seconda di quanto viene ascoltato, ma le differenze possono essere elevate. E questo modello vale in generale anche per gli artisti e le etichette indipendenti, che possono passare o meno da distributori digitali.

Discorso simile vale per gli autori. Nel rapporto si dice che Spotify ha versato quasi 4,5 miliardi di dollari ai titolari dei diritti d’autore – che rappresentano i compositori – negli ultimi due anni. Anche in questo caso, però, la somma viene suddivisa fra diversi soggetti (e autori, spesso più di uno per lo stesso brano).

Una torta da suddividere

Si comprende come la somma pagata al settore musicale sia in realtà una torta da suddividere fra più attori. Critico su questo impianto è il presidente della società di collecting ItsRight, Gianluigi Chiodaroli: «Apprezzo i dati di Spotify che mostrano come con il digitale si sia superata la crisi del supporto fisico», commenta. «Ma gli artisti sono assolutamente in una posizione di remunerazione inadeguata: il pagamento va agli aventi diritto, i produttori, ed è poi l’industria discografica che non ripaga come dovrebbe tutti coloro che hanno contribuito a creare valore. Inoltre non vi è trasparenza nella gestione dei dati sui pagamenti dallo streaming verso gli artisti».

La Fimi-Federazione dell’industria musicale sottolinea però come dal 2010 a oggi i pagamenti delle case discografiche agli artisti per lo streaming siano più che raddoppiati, mentre i ricavi dell’industria sono cresciuti del 17%. C’è poi un altro fattore: lo streaming ha in un certo senso democratizzato la distribuzione. Anche con risorse limitate oggi si può essere sulla piattaforma e questo ha moltiplicato in maniera straordinaria il repertorio e quindi la difficoltà di emergere. Eppure, a fronte dei 142 artisti che nel 2013 vendevano oltre 10 mila copie fisiche degli album oggi si è passati a 923 che hanno oltre 10 milioni di stream. Per Enzo Mazza, ceo di Fimi, se c’è un problema nella retribuzione dello streaming al settore non si deve cercare in Spotify, quanto in piattaforme come TikTok, popolari quanto poco remunerative.

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