TRUMP, DAZI E WALL STREET/ La strategia della recessione per sfidare la Cina e non finire come l’Ue

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Dopo la decisione dello Stato canadese dell’Ontario di introdurre una tassa del 25% su tutta l’energia esportata verso gli Stati Uniti, ieri il Presidente americano ha immediatamente risposto con il raddoppio dei dazi sull’esportazione di acciaio dal Canada e la minaccia di dazi sul settore auto canadese talmente pesanti da “terminare in modo permanente tutto il settore auto”.



Mentre annunciava queste misure in un post sul social Truth, Trump ribadiva che l’unica cosa che ha senso per il Canada è diventare “l’amato 51esimo Stato americano”. Nel frattempo i principali indici americani hanno continuato la discesa non solo per l’ennesimo episodio della saga dei dazi, ma anche per i timori del rallentamento economico. A fine giornata, dopo che il Governatore dell’Ontario ha sospeso la tassa del 25% sull’energia elettrica esportata, il Presidente americano ha dichiarato che probabilmente riconsidererà l’idea di raddoppiare i dazi verso il Canada.



In Europa le decisioni della presidenza americana continuano a passare per incomprensibili e inutilmente dannose, ma questa Amministrazione ha dietro tutta la “Corporate America” e un segretario del Tesoro che ha iniziato la carriera da Soros negli anni 90 in un fondo hedge che speculava contro gli Stati.

Facciamo un passo indietro. L’economia americana è sopravvissuta a un episodio inflattivo che non si vedeva da due generazioni e al raddoppio dei rendimenti governativi, rispetto alla media 2009-2019, grazie a stimoli fiscali da tempo di guerra o da tempo di recessione continuati ben oltre la crisi da Covid e da lockdown. Se si taglia la spesa fiscale l’economia rallenta e nemmeno tutta la presunzione europea può pensare che questo sia ignoto al dipartimento del Tesoro. Trump nel frattempo vuole rimpatriare l’industria per due ragioni.



La prima, economica, è che il deficit commerciale è diventato insostenibile. La seconda, di cui si parla molto meno, è strategica perché le catene di fornitura lunghissime che poggiano sui Paesi a basso costo, in primis la Cina, sono molto efficienti ma rendono il Paese senza manifattura e senza controllo sulle materie prime molto fragile; sia in caso di conflitti caldi, sia in quello di profonde ristrutturazioni degli equilibri economici globali.

L’America non può rimpatriare la sua manifattura con una valuta strutturalmente sopravvalutata e con un flusso ininterrotto di risparmi globali verso Wall Street. L’America non può rimpatriare l’industria senza causare inflazione e quindi non può avere un’economia surriscaldata dalla spesa fiscale come quella ereditata nel 2024. Nelle ultime due settimane il dollaro si è svalutato contro l’euro di quasi il 10% come somma dei piani di spesa europei e del rallentamento americano, la cui prima causa sono i tagli alla spesa pubblica; questo è un bene per le imprese americane esattamente come lo è stato per quelle europee nel 2014.

Diventa chiaro che questa Amministrazione è disposta ad accettare qualche contraccolpo pur di creare un ambiente favorevole al rimpatrio dell’industria. L’idea di fondo è che il contraccolpo iniziale verrà ricompensato con gli interessi dall’aumento degli impianti. È un processo agevolato scientemente da tagli e incentivi fiscali, dalla sburocratizzazione violenta e dall’abbandono di qualsiasi velleità di transizione energetica pur di dare alle imprese costi dell’energia competitivi.

Quello che sta succedendo non è un errore o un’imperizia, ma l’unico possibile contesto in cui l’America può sperare di rimpatriare industria e posti di lavoro. Il termine di paragone, in negativo, nell’ottica americana è proprio l’Europa che ammazza le sue imprese con regole, tasse e costi energetici e che si avvia su una strada di debito che, sempre secondo l’opinione dell’altra sponda dell’Atlantico, costringerà gli europei a passare la vita lavorando per ripagarlo. Al cuore della questione la scissione tra America ed Europa non è solo geopolitica, ma riguarda anche il ruolo delle imprese e delle famiglie rispetto a quello dello Stato.

Il rimpatrio dell’industria, come obiettivo strategico e di sicurezza nazionale, non è una supposizione, ma quanto dichiarato dal segretario del Tesoro. È questa l’ottica in cui forse si deve osservare anche la guerra commerciale con il Canada, in cui da un lato si minaccia di terminare la sua industria automobilistica e dell’altro gli si offre di unirsi alla federazione degli Stati Uniti d’America come cinquantunesimo Stato. Questa seconda opzione è coerente con le ipotesi di acquisto della Groenlandia piuttosto che con quelle di “sequestro” del Canale di Panama. L’orizzonte è il confronto con la Cina, per cui occorre prepararsi economicamente e politicamente.

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