incostituzionale la preclusione assoluta per il condannato che sia anche imputato

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Il caso

Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto sollevava, in via principale, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 5, ord. penit., in riferimento agli artt. 3, 27, commi secondo e terzo, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6CEDU e all’art. 48CDFUE; in via subordinata, il rimettente censurava la disposizione, in riferimento ai medesimi parametri, nella sola parte in cui prevede che la concessione dei permessi premio è vietata anche nei confronti di coloro i quali siano «imputati» per un delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, prima che siano decorsi due anni dalla commissione del fatto.

La disposizione in esame prevede, con riferimento ai permessi premio, che «nei confronti dei soggetti che durante l’espiazione della pena o delle misure restrittive hanno riportato condanna o sono imputati per delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, la concessione è ammessa soltanto decorsi due anni dalla commissione del fatto».

In primo luogo, il giudice a quo ha osservato che questioni simili a quelle ora sollevate sono state già dichiarate infondate con la sentenza Corte cost. n. 296/1997, la quale si concludeva «con un espresso invito al legislatore […] a rivedere la disposizione sotto un duplice profilo: circoscrivere meglio la tipologia di delitto doloso la cui commissione effettivamente comprometterebbe il giudizio sulla regolarità della condotta […] e rivedere la durata indifferenziata del periodo biennale di esclusione del beneficio», invito che, tuttavia, non ha sortito alcun effetto.

Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata – che prevede una preclusione delimitata nel tempo, ma assoluta ed invincibile, alla concessione di permessi premio, che si fonderebbe su una presunzione assoluta di temporanea inidoneità – appare distonica rispetto a molte altre previsioni della legge penitenziaria, che restringono la portata di simili preclusioni all’intervenuta condanna dell’interessato, anche in relazione alla concessione di misure alternative, dunque molto più ampie del permesso oggi richiesto, oppure alla loro revoca.

Di conseguenza, sarebbe ravvisabile un profilo di irragionevolezza della disposizione censurata, che risiederebbe nella previsione della ostatività biennale, collegata ad una istanza di permesso premio, nei confronti del condannato che riveste anche la qualità di imputato per un fatto commesso nel corso dell’esecuzione penale, laddove in tutte le altre disposizioni astrattamente a lui applicabili per la tipologia di reati che ha commesso, viene dato rilievo negativo dirimente ad eventuali fattispecie di reato sopravvenuto, soltanto laddove le stesse abbiano superato il vaglio del passaggio in giudicato della condanna.

La disposizione censurata, pertanto, equiparerebbe irragionevolmente la posizione di chi è stato definitivamente condannato per un reato con chi ne sia solo imputato, con ciò ponendosi in contrasto con l’art. 27, secondo comma, Cost. e, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., con l’art. 6CEDU e l’art. 48CDFUE.

La decisione della Corte

La Corte si è misurata con le argomentazioni sviluppate nella sentenza Corte cost. n. 296/1997, la quale aveva dichiarato non fondati dubbi di legittimità costituzionale analoghi a quelli ora formulati, pervenendo, invece, all’accoglimento delle questioni in considerazione della successiva evoluzione del contesto normativo e giurisprudenziale.

Con riguardo alla presunzione di non colpevolezza, la sentenza n. 296/1997 aveva ritenuto le censure dei rimettenti «esorbitanti rispetto alle finalità perseguite dall’art. 27, secondo comma, della Costituzione». La presunzione di non colpevolezza, aveva osservato quella pronuncia, «è […] coessenzialmente legata al fatto di reato per cui è stata elevata la nuova imputazione e non può essere estesa ad aspetti che nel caso di specie concernono il trattamento penitenziario conseguente al delitto per cui è in corso l’esecuzione della pena».

Ad avviso della Corte, una conclusione del genere “risulta oggi distonica rispetto alle declinazioni medio tempore conferite alla presunzione di non colpevolezza (o di innocenza, secondo la denominazione corrente nelle fonti internazionali e unionali) dalla Corte EDU, alla cui interpretazione l’ordinamento nazionale è in linea di principio vincolato in forza dell’art. 32CEDU, nonché dai recenti sviluppi del diritto dell’Unione e della stessa giurisprudenza di questa Corte”.

Secondo la giurisprudenza di Strasburgo, infatti, la presunzione di innocenza, fondata sull’art. 6, paragrafo 2, CEDU, si estende “non solo ai procedimenti giudiziari successivi, ma anche a quelli paralleli nei quali il fatto di reato addebitato alla persona, ma non ancora definitivamente accertato a suo carico, possa assumere una qualche rilevanza”.

Quanto all’ordinamento UE, il diritto alla presunzione di innocenza è oggi espressamente riconosciuto dall’art. 48, paragrafo 1, CDFUE; a livello di diritto derivato, il principio della presunzione di innocenza ha trovato poi specifica declinazione nell’art. 4, paragrafo 1, della direttiva 2016/343/UE, secondo il quale «gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, […] le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole»; obbligo che ha trovato attuazione nell’ordinamento italiano, tra l’altro, con il D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 188.

Infine, la stessa giurisprudenza costituzionale ha ormai riconosciuto che la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. “si estende a tutti i procedimenti giudiziari nei quali possa assumere una qualche rilevanza un fatto di reato addebitato alla persona in un procedimento penale, ma in quella sede non ancora definitivamente accertato” (cfr. ordinanze Corte cost. n. 107/1998, n. 101/2019 e n. 210/2020, sentenza n. 163/2024).

La presunzione di innocenza, quindi, “implica un generale divieto di considerare quello stesso individuo colpevole del reato a lui ascritto dal pubblico ministero”; divieto che opera “nell’ambito di qualsiasi procedimento giudiziario parallelo allo stesso procedimento o processo penale, sino a che la colpevolezza sia stata giudizialmente accertata, in via definitiva, nella sede sua propria”.

Da queste premesse, deriva una piana conclusione, ossia che il principio in parola si pone in contrasto con una disposizione come quella censurata, che sottrae al magistrato di sorveglianza “ogni margine di autonomo apprezzamento sulla reale consistenza della notitia criminis e, soprattutto, gli impedisce di ascoltare l’imputato e il suo difensore, e di tenere conto delle loro deduzioni circa l’effettiva commissione del fatto, nonché di valutare la sua rilevanza rispetto al thema decidendum nel singolo procedimento”, il che costituisce un vulnus, sia pure indiretto, anche al diritto di difesa dell’interessato.

Con riferimento, invece, alla finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., la sentenza Corte cost. n. 296/1997 aveva ritenuto che il meccanismo preclusivo, previsto dalla disposizione censurata, non era idoneo a compromettere la funzione rieducativa della pena, la preclusione essendo qui «inquadrata nel presupposto di quella regolare condotta del condannato che è essenziale per la concedibilità di permessi premio».

In quella decisione, peraltro, la Corte aveva espresso l’auspicio che il legislatore rivedesse l’automatismo in esame, «in relazione alle tipologie di delitti dolosi la cui commissione effettivamente comprometta il giudizio sulla regolarità della condotta e, conseguentemente, faccia presumere la pericolosità del condannato, nonché in relazione alla indifferenziata durata del periodo di esclusione dal beneficio».

Sono trascorsi quasi trent’anni, ma quell’auspicio è rimasto lettera morta.

Nel solco di alcune decisioni di poco anteriori alla sentenza n. 296/1997 (Corte cost. n. 186/1995 e n. 173/1997), la Corte ha poi costantemente predicato “la tendenziale illegittimità costituzionale degli automatismi in materia di revoca o preclusione dei benefici e delle misure alternative, conseguenti alla commissione di nuovi reati da parte del condannato”, insistendo, invece, “sulla necessità di una puntuale valutazione da parte del giudice della sorveglianza circa il significato concreto del fatto rispetto al percorso trattamentale intrapreso dal condannato e al giudizio relativo alla sua eventuale persistente pericolosità sociale”.

Ad esempio, la sentenza Corte cost. n. 149/2018 ha enunciato il «criterio “costituzionalmente vincolante”» che «esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso” nella materia dei benefici penitenziari (Corte cost. sentenza n. 436/1999), […] giacché ove non fosse consentito il ricorso a criteri individualizzanti “l’opzione repressiva finirebbe per relegare nell’ombra il profilo rieducativo”» (nello stesso senso, Corte cost. sentenze n. 56/2021, n. 253/2019 e n. 173/2021).

La disposizione censurata, invece, azzeraogni margine valutativo in capo al magistrato di sorveglianza sul percorso trattamentale intrapreso dal detenuto e sulla sua residua pericolosità sociale, ogni qualvolta egli risulti essere stato condannato (o sia addirittura semplicemente imputato) per qualsiasi delitto doloso commesso durante l’esecuzione della pena o di una misura comunque restrittiva della libertà personale. E ciò per due anni dalla commissione del fatto: un lasso di tempo tutt’altro che trascurabile, per chi trascorre la propria vita in un carcere”.

Alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte, la Corte ha ritenuto che “le conclusioni cui era pervenuta sul punto la sentenza n. 296/1997 non siano più, oggi, sostenibili”; con la conseguenza “che la disposizione censurata debba, conseguentemente, essere dichiarata costituzionalmente illegittima”, essendo l’automatismo preclusivo rispetto alla nuova concessione di permessi premio confliggente con la necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.

La Corte ha, tuttavia, sottolineato che la rimozione dell’automatismo previsto dalla disposizione all’esame “non esclude, naturalmente, che il magistrato di sorveglianza possa fondare la propria valutazione anche su fatti emergenti da informative di polizia o rapporti delle autorità penitenziarie, suscettibili di integrare ipotesi di reato”; infatti, in materia di permessi premio, l’art. 30-ter, comma 1, ord. penit. conferisce al magistrato di sorveglianza il compito di accertare, da un lato, la «regolare condotta» del condannato – a sua volta dimostrata, in base al comma 8, dal «costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali» –; e, dall’altro, l’assenza di pericolosità sociale del condannato stesso.

Alla luce del venire meno del censurato automatismo, il magistrato di sorveglianza può ora “valutare liberamente le evidenze relative alle condotte in questione, senza essere vincolato dalle valutazioni su di esse compiute da un pubblico ministero, né a quelle contenute in una decisione giudiziaria non ancora definitiva”.

Esito del ricorso:

Dichiarazione di manifesta inammissibilità

Riferimenti normativi:

Art. 83 c.p.p.

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