Centri di permanenza per il rimpatrio, un sistema inefficace e controverso

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Trieste – Negli ultimi mesi si è tornato a parlare con insistenza dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), soprattutto in relazione all’accordo tra Italia e Albania sul tema delle espulsioni. Tuttavia, questi centri esistono da venticinque anni e continuano a essere al centro di un acceso dibattito sulla loro funzione, l’efficacia e soprattutto sulla legittimità.

Ne hanno parlato lo scorso 10 marzo al Circolo della Stampa di Trieste Luca Rondi, giornalista e Mauro Palma, giurista, già Garante nazionale dei diritti delle persone trattenute, nella conferenza “La detenzione amministrativa degli stranieri: la sopravvivenza di un’istituzione totale?”

Luca Rondi ha affrontato il tema partendo dal suo lavoro per il periodico “Altreconomia” e dal libro “Gorgo CPR”, scritto insieme a Lorenzo Figoni, che approfondisce la realtà dei CPR in Italia.

Attualmente, nel Paese esistono dieci CPR: Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Milano, Torino, Roma, Bari, Brindisi, Palazzo San Gervasio, Caltanissetta, Trapani e Macomer. Il centro di Torino, chiuso in passato, dovrebbe riaprire entro marzo.

I CPR sono strutture nate nel 1998 con diverse denominazioni nel corso degli anni. Originariamente, il termine “accoglienza” faceva parte del loro nome, ma è stato successivamente rimosso per riflettere più fedelmente la loro natura. Dal punto di vista architettonico, questi centri somigliano in tutto e per tutto a delle carceri, con recinzioni, grate e misure di sicurezza pensate per impedire fughe.

La scarsa efficacia dei CPR

La principale caratteristica dei CPR è la detenzione amministrativa: le persone vengono rinchiuse non per aver commesso un reato penale, ma per non possedere un permesso di soggiorno regolare. Nonostante alcune narrazioni politiche li dipingano come luoghi destinati a individui pericolosi, in realtà la loro funzione è quella di trattenere migranti irregolari in attesa di rimpatrio.

Tuttavia, l’obiettivo dichiarato di questi centri – ovvero il rimpatrio degli individui trattenuti – si rivela fallimentare. Secondo i dati raccolti dal rapporto “Trattenuti”, realizzato da ActionAid in collaborazione con l’Università di Bari, la percentuale di persone effettivamente rimpatriate dopo il passaggio nei CPR è inferiore al 5%. Ogni anno, tra le 5.000 e le 6.000 persone transitano in questi centri, ma la maggior parte di loro non viene espulsa. Inoltre, solo il 10% di coloro che ricevono un provvedimento di allontanamento viene effettivamente trattenuto in un CPR.

Coinvolta una minima parte della popolazione senza documenti

Si stima che in Italia vi siano circa 400.000 persone prive di documenti. Di queste, solo 6.000 all’anno entrano nei CPR, e meno della metà viene effettivamente rimpatriata. Questi dati mettono in luce il fallimento dell’istituto stesso: se la sua funzione primaria è quella di rimpatriare chi è senza permesso di soggiorno, i numeri dimostrano che esso non sta raggiungendo il suo obiettivo.

Un altro dato interessante riguarda la nazionalità di chi viene effettivamente rimpatriato. Nel triennio 2021-2023, circa il 70% delle persone espulse dai CPR erano cittadini tunisini. Ciò era dovuto agli accordi bilaterali siglati tra Italia e Tunisia, come dimostrano le trattative condotte prima dall’ex ministro Luigi Di Maio e successivamente dalla premier Giorgia Meloni. Questo significa che, senza la componente tunisina, il numero di rimpatri sarebbe ancora più basso, minando ulteriormente l’efficacia dei CPR.

Dal 2008 al 2024, l’Italia ha rimpatriato in totale 110.000 persone, con un picco nel 2011 di 11.000 rimpatri. Tuttavia, negli ultimi anni il numero è calato drasticamente: nel 2023 sono state espulse solo 4.752 persone, mentre nello stesso anno gli arrivi sono stati circa 157.000. Questi numeri sollevano un interrogativo fondamentale: è davvero possibile aumentare significativamente i rimpatri, come auspicano alcuni governi europei?

L’impatto economico delle rimesse e il caso del Gambia

Uno degli ostacoli principali al rimpatrio riguarda l’interesse economico dei paesi di origine a trattenere i propri cittadini all’estero. Un caso emblematico è quello del Gambia, dove le rimesse degli emigrati rappresentano circa un terzo del prodotto interno lordo nazionale. Questo significa che l’economia gambiana dipende in larga parte dal denaro inviato da chi è partito per lavorare all’estero.

Dopo la fine della dittatura nel 2017, il volume delle rimesse verso il Gambia è cresciuto costantemente, rendendo il paese sempre più riluttante ad accettare il ritorno di migranti rimpatriati. Questa resistenza ha dato origine a un braccio di ferro con l’Unione Europea: per convincere il governo gambiano a riprendere i propri cittadini, la Commissione Europea ha imposto un aumento del costo dei visti per i gambiani. Tuttavia, ogni volta che in Gambia si tengono elezioni, il processo viene bloccato nuovamente, dimostrando quanto sia difficile per l’Europa imporre efficaci politiche di rimpatrio.

Questo caso mette in luce un aspetto cruciale: per molti paesi, accettare il ritorno di un elevato numero di cittadini non è conveniente dal punto di vista economico. L’intero sistema dei rimpatri si scontra con questa realtà, contribuendo ulteriormente alla sua inefficacia.

Opacità istituzionale e difficoltà di accesso ai dati

Un ulteriore elemento critico riguarda la trasparenza delle informazioni. Il Ministero dell’Interno è sempre più restio a condividere dati dettagliati sulla gestione e sugli esiti dei CPR, rendendo difficile un’analisi chiara del fenomeno. Le richieste di accesso ai dati da parte di giornalisti e organizzazioni della società civile incontrano spesso ostacoli burocratici e ritardi.

Di fronte a questi numeri, il sistema dei CPR appare inefficace e controverso: da un lato, il costo umano ed economico della detenzione amministrativa è elevato; dall’altro, il numero esiguo di rimpatri effettivi ne mette in discussione la reale utilità. In un contesto in cui il dibattito sull’immigrazione è sempre più acceso, il futuro di queste strutture resta incerto, così come le soluzioni alternative per gestire i flussi migratori in modo più efficace e rispettoso dei diritti umani.

La gestione della salute dei reclusi nei CPR

Proseguendo nell’analisi dei centri di permanenza per il rimpatrio, emerge una delle criticità più gravi: la gestione della salute all’interno di queste strutture. Il diritto alla salute risulta essere tra i più frequentemente violati nei dieci CPR italiani.

Uno degli aspetti più controversi riguarda i medici impiegati nei centri, i quali non appartengono al Servizio Sanitario Nazionale, ma sono assunti direttamente dall’ente gestore del CPR. Poiché questi centri sono gestiti da società private attraverso appalti, il conflitto di interessi è evidente: l’ente gestore guadagna in base al numero di persone trattenute e non per il numero di posti disponibili. Questo significa che i medici impiegati nei CPR lavorano per un datore di lavoro il cui interesse è trattenere il maggior numero possibile di persone, con conseguenti ripercussioni sulla valutazione delle condizioni di salute dei detenuti.

Un’altra questione cruciale riguarda le visite di idoneità, necessarie prima dell’ingresso nei CPR. La normativa prevede che queste visite siano svolte da medici dell’ASL per garantire un minimo di indipendenza rispetto alla gestione privata del centro. Tuttavia, emergono diversi problemi. Uno di questi è di natura geografica: una persona fermata senza documenti a Firenze, per esempio, può essere trasferita in un CPR distante centinaia di chilometri, come Roma, Milano o Gradisca d’Isonzo. È raro che un trasferimento avvenga senza la certezza preliminare che il soggetto sia ritenuto idoneo alla detenzione. Questo porta i medici, che spesso non conoscono direttamente la realtà del CPR di destinazione, a dichiarare idonea una persona senza sapere realmente in che condizioni verrà trattenuta.

Il secondo problema è la pressione esercitata sulle visite di idoneità da parte delle forze dell’ordine. Numerosi casi riportati nel libro descrivono episodi in cui medici hanno dichiarato la non idoneità di una persona, per poi ricevere telefonate dalle questure che li spingevano a rivedere la loro decisione. Un caso emblematico è quello di una persona ipovedente dichiarata inizialmente non idonea, ma successivamente costretta a entrare nel CPR dopo un lungo braccio di ferro tra la dottoressa e le autorità.

Infine, si riscontra un ulteriore conflitto di interessi: in alcuni CPR, come quello di Gradisca d’Isonzo, i medici che svolgono le visite di idoneità per conto dell’ASL sono gli stessi che lavorano all’interno del centro per l’ente gestore privato. Questo significa che una persona incaricata di stabilire se un individuo può essere trattenuto potrebbe essere la stessa che, all’interno del CPR, ha un interesse economico nel mantenerlo recluso.

L’uso degli psicofarmaci nei CPR

Oltre alla gestione della salute, un altro aspetto drammatico che emerge nei CPR è l’abuso di psicofarmaci. Un’inchiesta pubblicata nell’aprile 2023 ha rivelato un utilizzo spropositato di questi farmaci all’interno dei centri rispetto alla spesa farmaceutica sostenuta per cittadini stranieri senza documenti sul territorio. I dati mostrano che la spesa per psicofarmaci nei CPR è fino a 160 volte più alta rispetto a quella registrata per una popolazione analoga assistita dai servizi sanitari locali. Questo fenomeno è stato documentato anche da indagini della magistratura, come nel caso del CPR di Milano e di Palazzo San Gervasio, dove sono emerse prescrizioni fittizie e un utilizzo sistematico di farmaci sedativi per contenere le persone trattenute.

L’uso diffuso di benzodiazepine e antipsicotici indica non solo la presenza di soggetti con patologie psichiatriche all’interno dei CPR, ma anche una prassi consolidata di somministrazione di farmaci con finalità sedative piuttosto che terapeutiche. Numerosi casi testimoniano la detenzione di persone in condizioni di estrema vulnerabilità, come nel CPR di Ponte Galeria, dove un uomo con gravi disturbi psichiatrici è rimasto rinchiuso per mesi senza ricevere cure adeguate, fino all’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Qual è il risultato di tutto questo? Gli eventi critici, cioè l’autolesionismo e i tentativi di protesta da parte delle persone trattenute, sono all’ordine del giorno. Il corpo rimane spesso l’ultimo strumento per esprimere dissenso di fronte a condizioni di vita insostenibili. A Milano si registrava un evento critico ogni due giorni: questi eventi comprendono tentativi di suicidio, atti di autolesionismo e proteste.

La situazione non è nuova. Nel 2011, nel CPR di Torino, si sono registrati 1556 episodi di autolesionismo in un solo anno, 100 dei quali per ingestione di medicinali e 56 per ferite d’arma da taglio. Vi sono state anche forme di protesta estrema, come il cucirsi le labbra per denunciare la propria condizione di reclusione.

Il sistema dei CPR, dunque, si configura sempre più come un dispositivo di marginalizzazione sociale, dove il disagio e la sofferenza sono affrontati con la reclusione e la medicalizzazione forzata. In molti casi, le persone trattenute vengono rilasciate dopo mesi di detenzione, spesso con conseguenze psicologiche devastanti, senza aver ricevuto alcun supporto riabilitativo. La realtà che emerge dalle testimonianze e dalle inchieste è quella di luoghi dove l’eccesso delle nostre società viene rinchiuso e sedato, più che realmente gestito secondo criteri di tutela dei diritti e della dignità umana.



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