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Con la riforma fiscale il reddito di lavoro autonomo prevede il principio di onnicomprensività: tale innovazione genera delle incertezze soprattutto per quanto riguarda la nuova tassazione della cessione delle quote di partecipazione in associazioni e società che hanno per oggetto lo svolgimento di attività professionali.
Articolo tratto da Blast – Quotidiano di Diritto Economia Fisco e Tecnologia, direttore Dario Deotto
L’introduzione del principio di onnicomprensività nell’ambito del reddito di lavoro autonomo presenta molteplici profili di criticità che dovranno essere risolti nelle prassi operative. In proposito, si rileva innanzitutto che, sebbene i primi orientamenti espressi nelle riviste specializzate siano uniformi nel senso della irrilevanza delle erogazioni liberali, ai fini della configurazione di un reddito di lavoro autonomo, tale conclusione si presenta più come il frutto di una petizione di principio che non di una argomentata deduzione logico-sistematica.
Ed invero, una volta che si è reciso il rapporto di stretta corrispettività tra l’utilità ricevuta (“somme e valori”) e la prestazione eseguita (“in relazione all’attività artistica o professionale”), è difficile evitare il conseguente assoggettamento a imposizione di erogazioni comunque correlate all’attività svolta, esattamente come accade nel campo del reddito di lavoro dipendente. Si pensi, ad esempio, all’omaggio, anche di valore, che il professionista riceva a fronte di prestazioni effettuate senza un corrispettivo specifico ad amici e parenti.
La cessione quote di quote di partecipazione e il principio di onnicomprensività
Ma tra i problemi indotti da tale principio vi è anche la nuova tassazione della cessione delle quote di partecipazione in associazioni e società che hanno per oggetto lo svolgimento di attività professionali. In proposito, si è, per un verso, soppressa l’esclusione recata nell’articolo 67, lett. c) e c-bis), del TUIR, che per l’appunto sottraeva alla disciplina del “capital gain” le plusvalenze da cessione di quote di associazioni professionali – anche se forse non ce n’era bisogno, visto che anche con la riforma la predetta cessione non dà luogo a reddito diverso –, nel contempo si è riformulata la lettera g-ter) dell’articolo 17 del TUIR, includendovi le plusvalenze derivanti dalla cessione di quote di partecipazioni in associazioni e società professionali, diverse dalle società di capitali.
Dalla lettura della relazione illustrativa, si desume che le predette plusvalenze devono oggi ritenersi componenti positive di reddito di lavoro autonomo, in virtù proprio del principio di onnicomprensività. Senonché da tale nuova qualificazione – in precedenza le cessioni di quote di associazioni professionali, si ricorderà, erano fiscalmente del tutto neutre – emergono molteplici aspetti critici che dovranno essere risolti.
Il primo riguarda la determinazione della plusvalenza da tassare. Non è semplice, infatti, risalire al costo fiscalmente riconosciuto di una quota di associazione professionale. Come devono essere considerati, ad esempio, i redditi imputati negli anni precedenti e reinvestiti all’interno dello studio associato?
Dovrebbe trattarsi di componenti incrementative del costo della partecipazione, alla pari di quanto accade nelle quote di società di persone, ma in assenza di una contabilità “finanziaria”, la ricostruzione è di fatto impossibile. È vero che le medesime problematiche si pongono per le quote di società di persone in contabilità semplificata, ma nel caso delle associazioni professionali la situazione si complica perché si passa da un regime di totale esclusione da imposta – in vigenza del quale, dunque, un problema di memorizzazione degli utili di esercizio semplicemente non esisteva – a uno di tassazione integrale della plusvalenza. Si dovrebbe in effetti prevedere una sterilizzazione di tutte le plusvalenze maturate al 31 dicembre 2024, con eccezione di quelle collegate alla cessione della clientela, e così evitare la sostanziale retroattività della novella. Specularmente, per ovvie esigenze di simmetria, le medesime plusvalenze non dovrebbero dar luogo a componenti deducibili dal reddito dell’acquirente.
La questione appena evidenziata attiene, a evidenza, ai profili di doppia imposizione della disposizione in esame che potrebbero assumere molteplici declinazioni concrete. Ed invero, prendendo in esame la plusvalenza realizzata sempre in sede di cessione di quota, imputabile in proporzione alla cessione della clientela, cosa accade se in un momento successivo la cessione della clientela viene eseguita dall’associazione professionale?
È evidente che, in tale eventualità, si verifica una doppia tassazione sulla quota parte già assoggettata ad imposizione in capo all’ex socio cedente. Per rimediare all’inconveniente, si dovrebbe ipotizzare la possibilità per l’associazione professionale di effettuare una variazione in diminuzione, nell’anno in cui si è eseguita la cessione della clientela, corrispondente alla porzione già tassata.
Sotto un differente punto di vista, si pensi invece all’ipotesi, non infrequente, in cui il socio cedente non svolga attività professionale a titolo personale. Si dovranno in tal caso adottare le opportune modifiche sui modelli dichiarativi per consentire l’esposizione di redditi di lavoro autonomo da parte di un soggetto privo di partita Iva individuale.
Viene da chiedersi se, alla fine, non sarebbe stato forse più lineare ricondurre la cessione di quote in esame ai redditi diversi, ex articolo 67, lett. c) e c-bis), del TUIR. Quantomeno, si sarebbero poste le premesse per semplificare la soluzione dei problemi attraverso l’applicazione del nuovo affrancamento a regime, con il pagamento dell’imposta sostitutiva del 18 per cento.
NdR: potrebbe interessarti anche un approfondimento del Dott. Luciano Sorgato in materia di: Conferimento degli studi professionali: scopri qui i dubbi applicativi
Luigi Lovecchio
Martedì 7 Marzo 2025
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