Passato e futuro del cemento in Valsusa

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Passato e futuro del cemento in Valsusa
di F1-M-F2
(pubblicato su Nunatak, n. 74, autunno 2024)
Foto di F1

Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie (Walter Benjamin, Sul concetto di storia)”.

Questo scritto tenta di osservare da diverse angolazioni la Valle di Susa, un caso esemplare e forse unico nel panorama italiano per ragionare sul tema delle trasformazioni del territorio contemporaneo. I disastri idrogeologici di quest’estate e lo sgombero del presidio di San Giuliano sono alcuni dei fatti che hanno spronato la scrittura di questo articolo, ma non solo, le immagini di Valencia dimostrano che non possiamo più ignorare le macerie di cemento sotto le quali verremo sepolti. La prima parte è una fotografia della Valle, dai confini della zona metropolitana al valico francese; la seconda parte è un breve riassunto della storia delle infrastrutture, dell’industrializzazione, del territorio e di alcuni aspetti della vita di coloro che lo hanno attraversato; la terza vuole fare accenno ad alcuni elementi di analisi geografica per una riflessione sulle sovrapposte scale del costruito e le sue rovine, tra promesse e menzogne della modernità. In ultimo, certamente non per importanza, abbiamo cercato di porci una domanda che possa essere utile per avviare una discussione collettiva, oggi indispensabile e urgente, su come si possa vivere tra le macerie della precedente fase di sfruttamento del territorio e al contempo opporsi a quelle future, ancora in costruzione.

Istantanee
Sorvolando ipoteticamente la Val di Susa si potrebbe già intuire quanto questo territorio possa essere stato influenzato dall’ingombrante vicinanza con Torino e, di pari passo, con i suoi vicini d’oltralpe. Ma è attraversandola, soffermandosi e soprattutto vivendoci, che possiamo veramente capire quanto l’urbanizzazione, l’industrializzazione e tutti gli strascichi di fatiscenze lasciate ai piedi delle sue montagne facciano oramai pienamente parte del tessuto connettivo della più popolosa valle piemontese. Senza voler elencare tutta la prepotente rete viaria che l’attraversa, è sufficiente percorrere l’autostrada verso ovest per vedere scorrere davanti agli occhi tutte le sfaccettature delle tipologie di esistenza che vivono e che non troppo tempo fa hanno vissuto questi luoghi. Dapprima una costola sempre più fluttuante delle aree suburbane con le loro case semi dipendenti adibite a moderni dormitori, i loro supermercati e le aree di interscambio; poi le montagne iniziano a coprire il cielo e la tipica edilizia di paese valligiano si mescola e si confonde con tutte le rimanenze dell’edilizia condominiale del dopoguerra, legata soprattutto all’ambiente operaio. Continuiamo a “salire” e queste immagini continuano a ripetersi, senza soluzione di continuità, fino alla periferia della cittadina che si presta a dare il nome all’intero territorio circostante; solo se alziamo lo sguardo possiamo notare le molte borgate apparentemente integre, ma in realtà permeate da numerosissime seconde case che spesso simulano la spiovente architettura alpina, che nella maggior parte dei casi non superano gli anni Settanta in quanto a vecchiaia e questo lascia ben intendere come la “moda” di villeggiatura abbia preso decisamente altre strade. Da Susa, che mantiene quasi un austero immobilismo, si apre un bivio: a sinistra la via ora più spontanea verso la Francia, con i suoi cavalli di battaglia del turismo invernale; a destra un ramo dell’alta valle che, per i più attenti, perde anche la designazione di “Susa” e ci obbliga a un percorso più tortuoso per sfociare in zone francesi meno battute nei limiti dell’ormai onnipresente turismo. In questo contesto l’urbano e l’industriale spesso fanno affidamento alle loro frange più appariscenti e danno grande rilievo al loro pupillo: il cemento. Ecco allora, davanti agli occhi, vertiginosi piloni stradali, gallerie, dighe e condotte idroelettriche, stazioni e sottostazioni energetiche, costruzioni ricettive e vestigia militari di un tempo non troppo lontano che ci ricordano in che modo questi luoghi possano erigersi a nomea di confine naturale.

In bianco e nero
La Valle di Susa è una delle zone dell’arco alpino in cui risalta maggiormente la complessità del rapporto tra città e montagna. Attraversando questo territorio non si può non soffermarsi sulle trasformazioni che lo hanno travolto. La posizione geografica, che pone questa valle a ridosso dell’area metropolitana di Torino e la rende un importante collegamento con la Francia, ha favorito grandi e repentini cambiamenti dal punto di vista infrastrutturale e insediativo. La Strada Statale 25 del Moncenisio, voluta da Napoleone e completata nel 1810, è stata una delle prime carrozzabili a valicare le Alpi. Nel 1870 è stata inaugurata la Ferrovia del Frejus, mentre tra il 1868 e il 1871 è entrata in funzione la rete ferroviaria del Moncenisio. Un secolo dopo, nel 1980, è stato scavato un ulteriore tunnel nel Frejus, dedicato al passaggio delle auto, poi collegato alla rete autostradale mediante la costruzione dell’A32.

Lo sviluppo industriale della Valle di Susa è cominciato alla fine degli anni Ottanta del 1800. Nel 1872 è entrato in funzione il dinamitificio Nobel di Avigliana; nello stesso anno ha iniziato a espandersi anche il settore tessile con il cotonificio dei F.lli Borio di Sant’Ambrogio, seguito dal cotonificio di Borgone e da altri stabilimenti che sono poi stati riuniti nell’azienda Cotonificio Vallesusa. Nel 1876, la ferriera di Colano a Bussoleno ha iniziato la sua produzione e l’opificio siderurgico di Susa è stato ampliato. Nel 1906 hanno aperto le Officine Moncenisio, e nel 1930 è stata inaugurata la fabbrica di merluzzi con stabilimenti a Chiomonte, Salbertrand e Oulx. Dall’inizio del 1900 si è sviluppato l’indotto del turismo. La FIAT, volendo gestire anche il tempo libero dei suoi dipendenti, ha dato il via alla costruzione di Sestrière, nel 1930, a immagine e somiglianza dello stabilimento del Lingotto di Torino. Da Chiomonte in su, sono stati realizzati impianti dedicati agli sport invernali e molte case e alberghi per ospitare i villeggianti. Nel 2006 la Valle di Susa è stata anche il palcoscenico delle Olimpiadi invernali e la montagna ha subito pesanti devastazioni a causa delle infrastrutture necessarie per le gare. Dall’inizio degli anni Novanta è in corso il tentativo di costruzione della linea ad alta velocità Torino-Lione, con l’apertura di cantieri che stanno distruggendo ciò che resta di una valle segnata dalle cicatrici della modernità. Nella notte di lunedì 9 ottobre 2024, è stato sgomberato il presidio di San Giuliano dedicato a Sole e Baleno; su quei terreni si vorrebbe aprire un nuovo cantiere, dopo quelli di Chiomonte e San Didero.

Il peculiare sviluppo infrastrutturale ha reso la Valle di Susa estremamente popolata e ha portato con sé una complessa composizione sociale. È spontaneo domandarsi quanto resti delle strutture comunitarie tipiche dei territori rurali di montagna e quanto invece la città abbia risalito l’intera vallata lungo le rive della Dora, portando con sé abitudini, differenze, conflitti e tensioni. Trattandosi di una questione molto ampia, può essere utile cercare un filo conduttore tra i cambiamenti infrastrutturali e insediativi nel territorio valsusino e le persone che lo abitano. Le lotte che si sono sviluppate dal secolo scorso a oggi forniscono alcuni elementi utili alla riflessione.

Già durante la Resistenza, l’industrializzazione della bassa Valle di Susa e il tessuto sociale che ne è conseguito hanno avuto rilevanza. La classe operaia era presente e consapevole. Nel 1905 è nato La Valanga, un giornale che criticava l’organizzazione capitalista del lavoro, lo sfruttamento nei cotonifici e sosteneva le rivendicazioni dei ferrovieri. Nel 1907 a Bussoleno si è svolto il primo “Convegno Operaio Valsusino”; in più, la Grande Guerra e le sue conseguenze hanno ulteriormente risvegliato le coscienze dei lavoratori. Questa valle, oltre a trovarsi in un luogo strategico dal punto di vista militare, era la casa di tanti disposti a lottare contro il regime nazifascista. Dal dopoguerra in poi, anche le fabbriche valsusine sono state attraversate dalle lotte operaie. Già nel 1954, gli operai della fabbrica di ferro di Bussoleno si sono mobilitati per mesi contro la chiusura dello stabilimento e il licenziamento degli operai, ottenendo una parziale soluzione: lo stabilimento è stato ridimensionato e duecento operai sono stati assunti dal Comune.

Sempre nel 1954, sono iniziati gli scioperi degli operai del Cotonificio Vallesusa; i lavoratori lottavano contro salari bassi e contratti a termine. La risposta della direzione è stata durissima e la magistratura ha applicato il codice Rocco a tutti coloro che si erano organizzati per la lotta. Per alcuni anni l’azienda ha continuato la produzione, ma le condizioni dei lavoratori non sono migliorate. Nel 1965 è stato decretato il fallimento dell’azienda; nonostante le lotte dei lavoratori e i tentativi dei curatori fallimentari di trovare nuovi investitori, nell’arco di un decennio sono stati chiusi tutti gli stabilimenti.

In Valle di Susa, dal 1968 in poi, si è sviluppato anche un movimento antimilitarista, il cui nucleo si trovava all’interno delle Officine Moncenisio. Durante il primo conflitto mondiale, ancora con il nome di Officine Bauchiero, avevano prodotto biplani da ricognizione, torpedini e boe per sommergibili. Successivamente, dopo aver cambiato nome ed essere entrate nel gruppo Falck, hanno iniziato a produrre bombe per mortaio e siluri per la Marina militare impiegati nella guerra successiva. Negli anni Settanta la fabbrica produceva macchine per maglieria e carrozze ferroviarie, ma alcuni dipendenti temevano che si riprendesse la produzione bellica. Il 24 settembre 1970 l’assemblea dei lavoratori aveva votato una mozione che diffidava la proprietà dall’accettare commissioni dall’industria della guerra. In quel momento di fermento, Achille Croce, un operaio molto attivo all’interno della fabbrica, ha dato vita con altri giovani valsusini al collettivo “GVAN”, Gruppo Valsusino di Azione Non Violenta. Nel 1972 è nato il giornale Dialogo in Valle, che per anni si è occupato di controinformazione e ha accompagnato le lotte nei decenni successivi. Negli anni Ottanta si è combattuta la battaglia contro l’autostrada che collega Torino al tunnel del Frejus. Nel 1987 è stata bloccata la costruzione della linea elettrica che avrebbe dovuto collegare la centrale nucleare Super-Phénix, nel dipartimento dell’lsère, all’Italia, passando per il territorio valsusino. Nei primi anni Novanta è nato il movimento NoTAV e nei primi anni Duemila c’è stata la mobilitazione contro le Olimpiadi. Con la chiusura delle frontiere per chi non è europeo, pochi anni dopo, molti gruppi si sono organizzati per aiutare chi, senza i giusti documenti, cercava di raggiungere la Francia.

Queste poche righe riassuntive non possono restituire la complessità del territorio della Val di Susa, ma, osservando lo sviluppo, la costanza, la tenacia e i metodi con cui le lotte si sono svolte dal secolo scorso a oggi, è spontaneo chiedersi se questo sia uno degli ambiti in cui si riproducono le dinamiche cittadine e se, forse, la metropoli ha effettivamente permeato tanti degli spazi umani e non solo del territorio.

Sulla mappa
Oggi è scontato attraverso una superficiale valutazione empirica riferirsi alla città quando parliamo di “urbano”, intendendo con città luoghi di concentrazione di popolazione, servizi e infrastrutture.

Tuttavia, finora, abbiamo fatto accenno alla Val di Susa come un territorio che città non è, ma che in qualche modo fa proseguire il solco lungo del capoluogo piemontese in un continuum che arriva fino alla Francia. La storia del costruito montano del Novecento è lunga e le cartoline tristi che abbiamo citato possono dare solo una minima idea dell’ultimo secolo: i palazzoni di prima residenza, le arterie della mobilità, i luoghi di produzione manifatturiera, i punti di estrazione e gestione di risorse naturali, siano esse idriche o minerarie, i luoghi del loisir e i grandi impianti sportivi del turismo alpino sono solo parole in elenco che non possono rendere conto delle migliaia di metri cubi di assetto edificato, che copre come un telo soffocante la terra, che dirotta il corso dei fiumi. Secondo i dati del monitoraggio di consumo del suolo dell’area della Città Metropolitana di Torino, comprendente capoluogo e provincia, la superficie di aree urbanizzate è andata continuamente crescendo negli ultimi trent’anni, nonostante un calo drastico e costante di popolazione. La Val di Susa è una delle zone che assieme alla prima città fa registrare il maggior tasso d’incremento e la famosa ecosostenibilità edilizia di alcune nuove strutture non fa che giustificare l’ulteriore espansione.

Nelle analisi geografiche odierne questa coperta mortifera, questa rete pervasiva d’indotto della città, è tenuta insieme da nodi di interscambi funzionali che rendono di fatto luoghi che concepiamo fuori dalla città come spazi intensamente urbanizzati, seppur contornati da colli e montagne con vaste aree non copiosamente cementate. Stazioni ferroviarie, caselli autostradali e snodi della logistica delle merci sono tra gli esempi più banali che possono essere citati. Per mostrare la metropolizzazione avvenuta negli anni, proviamo a capire come, attraverso snodi particolari, luogo e territorio possano servire in maniera inscindibile il centro di riferimento o più centri di riferimento (Torino, Cuneo, Genova, Lione), seppur su una diversa scala geografica. Se si prende l’esempio di Milano, appare molto più chiaramente l’immensa rete che trascende i limiti amministrativi del comune componendo un’unità produttiva; allo stesso modo dovrebbe essere fatto lo sforzo di vedere l’agglomerato torinese con le valli più prossime, specie quella di Susa, per come costituiscono un unico sistema multi-scalare, dalla morfologia variabile, ma con molti più spazi di rarefazione rispetto al caso lombardo, per fortuna.

Questa determinata e decadente conformazione spaziale del capitalismo industriale non è certo inosservata dai professionisti dei dipartimenti d’architettura. Negli ultimi anni, specie dopo il biennio Covid e la fuga dalla città che ne è conseguita, sono sbucati proprio dal solerte Politecnico sabaudo alcuni studi di prospettiva sul riabitare l’Italia a partire da quelle che vengono definite zone marginali, la cui demografia ancor più che altrove sta seguendo una rilevante discesa di curva. Ci sono territori che hanno subito l’impatto dell’economia manifatturiera passata, delle sue esigenze sociali – scrivono. Quel modello è ora in declino e ha lasciato dietro di sé ruderi, fatiscenza e inutilizzo, macerie di fatto e di vita. Ed eccolo lì un concetto confezionato e adatto ad attizzare le esigenze d’investimento o le fantasie di qualche quadro aziendale in cerca di una residenza con la vista sulle conifere: la metromontagna. Un po’ neologismo, un po’ ecobrand, i tecnici propongono di ripensare la governance territoriale e sfruttare il filo lungo dell’urbanizzazione passata per costituire nuove unità amministrative che non tengano più conto delle vecchie divisioni territoriali, come la municipalità. L’imperativo è guardare le potenzialità di quell’unica rete e, attraverso il digitale, renderla adatta a chi lavora in città e magari vuole stare immerso nel verde, rendendola ancora più veloce nell’attraversamento, più smart nelle connessioni internet, più estetica dal punto di vista paesaggistico.

Se abbiamo visto come effettivamente industria e indotto del passato hanno di fatto messo insieme una rete funzionale alla circolazione di merce, i professionisti dello spazio vorrebbero oggi che venisse riconosciuta anche a livello amministrativo e politico come un’unica metropoli, così da rendere più agevole, anche dal punto di vista normativo, la movimentazione di nuove tipologie di capitale “immateriale”. Non è un caso che sia diventata indispensabile in un sentiero di montagna, in egual modo a una strada di quartiere, l’esplorazione di nuove fonti di dati attraverso la georeferenziazione e i sistemi informativi territoriali computerizzati, i cosiddetti Gis. La Valle di Susa e le ricche valli del Monviso sembrano proprio adatte a questo nuovo livello di capitalizzazione. Chiaramente, e come spesso accade, i tecnici del settore vedono in qualcosa di reale, in questa geografia di collegamenti in declino, la possibilità di una rifunzionalizzazione, la possibilità di ristrutturarne una parte per le nuove forme di economia e mobilità. Velocità, digitalizzazione, risorse naturali a disposizione attraverso la retorica di nuove modalità di estrazione green. Cos’è tutto questo se non esattamente l’ideologia del Tav?

In coda, il punto
Se laTorino-Lione non è che il successivo passaggio del progresso industriale, si deve sottolineare come, rispetto al cemento del boom economico, l’idea sociale che la sottende abbia novità e peculiarità. Abbiamo finora cercato di mostrare come la storia piemontese del secolo scorso sia stata proprio l’avvicendarsi di varie strategie di sradicamento delle secolari modalità nei rapporti di vita, dall’architettura vernacolare alle attività lavorative, per riuscire a comprendere meglio la territorializzazione dei luoghi che abitiamo e frequentiamo. La conformazione dello spazio in Val di Susa è infatti frutto avvelenato di politiche di crescita urbana che l’hanno coinvolta massicciamente, con la medesima promessa di crescita della città: case più grandi in luoghi in cui sembrava impossibile costruire, fabbriche imponenti come superamento della precedente sopravvivenza legata alla terra, necessità di una mobilità automobilistica continua per assolvere a tutte le funzioni della vita moderna. Tutto ciò si presentava con una promessa democratica di crescita, per tutti, che ha realizzato alcuni dei suoi punti, nella possibilità di salario e consumo. Nefasta che fosse, con l’eredità di case fatiscenti, autostrade onerose, una morfologia idrogeologica che mette continuamente in pericolo la popolazione per la sua instabilità, questa promessa non è la stessa del progresso delle nuove opere come il TAV.

Infatti, se l’insediamento del cemento non è nuovo come metodo, le nuove infrastrutture di collegamento come la Torino-Lione assumono morfologie su sempre più vasta scala che perforano, tagliano e infine fanno esplodere definitivamente la divisione tra rurale e urbano, che siano frange suburbane, campi verdi o siti rurali. La tumultuosa organizzazione socio-spaziale e regolazione su scala transnazionale, o persino globale, dividono l’idea di uno spazio comune come base territoriale omogenea e orizzontale. Per capire meglio ciò che si sta cercando di sostenere, bisogna immaginare il territorio in questione non su un unico piano, come in una visione satellitare da Google Maps, ma verticalmente: il TAV impone un’idea di spazio in cui un’infrastruttura si solleva sopra il circostante attraversamento di tutti, fende il territorio come una spada e fa muovere su una linea privilegiata e accelerata una popolazione da un punto A a un punto B, sfruttando tutto ciò che c’è intorno, rendendolo spazio funzionale, portando alla demolizione di case, a cambiamenti rilevanti nella piccola mobilità per aggirarlo, a considerare di secondo o terzo piano le esigenze di chi sul territorio vasto, fuori da quella direttrice privilegiata, vive. Un mondo per pochi che si muove su un veloce reticolo che si staglia, si solleva sopra lo spazio a disposizione di tutti gli altri, compromettendone le strategie di vita.

Se l’edificato del secolo scorso costituisce attualmente un ammasso pericolante che incombe sulla testa di tutti, specialmente durante i nubifragi, quello del nuovo mondo ad alta velocità vuole bypassarlo a beneficio di chissà chi, lasciando noi in mezzo a questa pervasiva rete in via di disfacimento, sfruttandone solo alcuni snodi funzionali, costruendone poi di nuovi che non fanno che aumentare il portato distruttivo generale nella vallata. Alla luce del disastro causato dall’esondazione del Rio Gerardo a Mattie, sorge spontaneo domandarsi come vivere e lottare in un territorio come quello della Valle di Susa dove questi eventi sono già usciti dallo straordinario. Il cemento si sgretola sotto alla pioggia e ogni alluvione rischia di portare con sé danni ingenti alle case, alle strade e alle aziende, luoghi in cui gli abitanti della Valle vivono e che permettono la loro sussistenza. Cercando di avere gli occhi ben saldi sulla realtà, bisogna però iniziare a immaginare soluzioni che esulino da ciò che è l’aiuto che possono fornire le istituzioni, misero se va bene, nocivo e sregolato in tutte le altre occasioni. Sicuramente una valle di circa 90.000 abitanti non può da un giorno all’altro immaginarsi uno spazio di autonomia come potrebbe fare una borgata di poche anime, ma si possono creare delle fratture in cui iniziare a sperimentare nuove forme di organizzazione, provare a darsi nuovi strumenti per sopravvivere in questa realtà dalle tinte sempre più cupe.

Dopo l’alluvione di agosto 2024 a Mattie, la solidarietà da parte del paese verso chi era stato maggiormente colpito si è fatta subito sentire, un ragazzo con una moto da trial portava la spesa alla borgata rimasta isolata mentre è subito partita una colletta per sostenere un giovane che aveva visto la sua piccola azienda agricola completamente distrutta. Senza la pretesa di avere la risposta a questioni così complesse, forse una buona idea è iniziare a osservare queste azioni spontanee che si danno nel momento del bisogno e iniziare a confrontarsi con chi si ha accanto per scoprire e sperimentare, oltre al mutuo aiuto, l’autogestione dell’ambiente circostante. Certo, paragonare le iniziative di coesione e solidarietà sociale a quelle di un nuovo sguardo verso la cura in autonomia di territori devastati è ardito, ma è un passaggio di riflessione oggi necessario. Come è necessario anche riflettere sul nostro modo di lottare e provare a interrompere una volta per tutte la linea di continuità con la città e la sua tradizione, non per creare una distanza con le lotte che avvengono altrove, ma per creare armonia e coralità tra i diversi sogni per un mondo altro.

È possibile o no, visto il portato della distruzione passata e di quella ora in edificazione?

Iniziare a chiederselo è davvero poco, ma comunque qualcosa.

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