«L’appello della Quaresima è anzitutto personale, ma interpella anche il nostro vivere comune. Siamo chiamati a reagire alla logica del mondo per guardare con fiducia alla possibilità di un cambiamento, di una conversione: non la guerra, ma la pace, non l’iniquità, ma il diritto e la giustizia, non la prepotenza della sopraffazione, ma l’umile gesto di compassione e di condivisione. Cambiare ritornare, convertirci, è questo che ci viene chiesto nel cammino della nostra Quaresima».
Nell’introduzione che apre la celebrazione nella I domenica di Quaresima con il rito dell’imposizione delle ceneri – dopo il canto dei 12 Kyrie peculiari dei grandi momenti della tradizione ambrosiana -, c’è tutto il senso dei giorni che conducono, nella penitenza, alla Pasqua di risurrezione del Signore. Come l’Arcivescovo – presiedendo in Duomo la Messa concelebrata dai Canonici del Capitolo della Cattedrale – sottolinea nell’omelia ispirata dalle letture tratte dal Libro del profeta Gioele, dalla prima Lettera paolina ai Corinzi e dal Vangelo di Matteo al capitolo 4, con il rimando evidente all’oggi e a coloro che «vogliono e si propongono di essere pellegrini di speranza».
Gli infelici e i falsi felici
«Ci sono quelli non sopportano più di essere infelici o che si accontentano della loro infelicità, che danno la colpa a questo e a quello. Sono arrabbiati con tutti e passano la vita a seminare tensione. Rendono la vita difficile a sé e agli altri; si deprimono per la loro infelicità, sono tristi e rassegnati. Non amano la loro vita e la subiscono come un destino incomprensibile; si domandano persino se valga la pena essere vivi», dice, infatti, nell’avvio della sua riflessione.
Infelici che, talvolta, si mettono in cammino per «cercare il paese della gioia o, almeno, il mercato dove si può comprare un poco di gioia», anche se è «come una traversata nel deserto». E così – il richiamo è al titolo di un famoso film – trovano la «“locanda della felicità”, dove molti decidono di fermarsi, dicendo: “Ecco la felicità: disporre di tutto quanto può soddisfare la fame e saziare il corpo e rendere allegra l’anima”».
Ma tutto questo non basta, per cui alcuni riprendono il cammino arrivando «nel villaggio che si chiama Gloria», dove la felicità è «essere riconosciuti, apprezzati, applauditi» e altri, vanno ancora oltre fino al «palazzo del gran re». Che, come tutti i potenti, «non fu insensibile agli omaggi e agli inchini degli stranieri, proponendo loro di diventare suoi sudditi per assumere il governo di una provincia o di una città, di un esercito o di un ministero. Alcuni dei cercatori di felicità ne furono entusiasti e accettarono d’essere sudditi e di diventare potenti, osservando “Ecco che cos’è la felicità: essere amici dei potenti e diventare potenti”».
Chi rimane, dunque, di questi cercatori della vera gioia, metafora del cammino pasquale, per parafrasare la domanda suggerita dall’Arcivescovo?
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I veri cercatori di speranza
«Quei pochi spiriti liberi che non si rassegnano alla locanda della felicità, al paese chiamato gloria o alla reggia del gran re. Dove vanno, non lo sanno neppure loro, ma si fidano di quella intuizione che per loro è come una annunciazione e una promessa. Sono ancora in cammino: sono pellegrini di speranza».
Coloro che, pur non sapendo se la meta è vicina o lontana, «raccolgono indizi, smascherano inganni, respingono tentazioni e sperimentano che già il cammino è un anticipo di felicità: corrono, ma non come chi è senza meta, piuttosto come fossero guidati dagli angeli, come fossero spinti da un vento amico, come fossero attratti dalla promessa affidabile». Questa «l’intuizione della Quaresima»: la promessa di Dio di renderci felici che si compie a Pasqua.
«Perciò anche noi vogliamo iscriverci tra quel poco resto di cercatori di felicità. Iniziamo il cammino con la gratitudine di essere chiamati, con la determinazione a respingere le tentazioni e a smascherare il diavolo, con la gioia che già è anticipata nella speranza. Vorremo essere, e ci proponiamo di essere, pellegrini di speranza», conclude monsignor Delpini che, al termine della celebrazione, sottolinea il senso profondo del gesto dell’imposizione delle ceneri.
Il senso delle “ceneri”
«L’imposizione delle ceneri è un invito, non tanto a un’umiliazione, quanto a quella libertà dello spirito che non si lascia ingannare dalle tentazioni, impigliare nei molti lacci che la nostra vita talvolta conosce. È un invito alla libertà, a una possibilità di speranza, a una disponibilità alla fatica di essere cercatori della vera felicità», spiega l’Arcivescovo, a cui il penitenziere maggiore della Cattedrale monsignor Fausto Gilardi impone le ceneri sul capo, prima che lui stesso le ponga ai canonici del Capitolo i quali, a loro volta ai piedi dell’altare maggiore, le portano ai molti fedeli presenti.
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