La voce del torrente. Gente in Aspromonte, un classico contro la mitizzazione

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REGGIO CALABRIA Gente in Aspromonte è un testo di modernità assoluta. Il più moderno tra quelli che raccontano la montagna calabrese. E d’altro canto, bisognerebbe considerare che l’indicazione geografica contenuta nel titolo della raccolta e del primo racconto non è che un pre-testo – Gente in Aspromonte racconta, sì, di una comunità antropologicamente e storicamente definita, ma non è il suo racconto. Alvaro crea una narrazione che esce dalla mitizzazione del ricordo delle proprie origini. Il suo Aspromonte non è realistico nel senso comune del termine. Alvaro non lo ritrae supponendo una mimesi inesistente. Vuole dire (e dice) molto di più.

Manoscritto Corrado Alvaro

Non è possibile scrivere realisticamente. Si accumula carta davanti a cui ci si ferma, a ogni nuova velleità. Sbigottiti, rinunziando. Scrivere di qualcosa di più che la realtà.i

L’Aspromonte di Alvaro è un punto di vista, una prospettiva dalla quale leggere e dire una contemporaneità, ancora oggi sostanzialmente immutata, nata dopo una guerra mondiale annichilente (propedeutica a un’altra ancora più orrenda e oscena), che ha cambiato di valore a ciò che è umano, perdendolo o assolutizzandolo. Il tempo della miseria sociale e umana, della città labirinto e lager, delle utopie ottocentesche che hanno fatto della lotta per la giustizia e l’uguaglianza un credo non meno illusorio di quello di una qualsiasi chiesa (le Grandi Narrazioni). Dell’emancipazione femminile, che procede (ancora adesso) tra travisamenti e tragedie. Dire tutto ciò senza svilirne la profondità e la potenza, si può solo scrivendo un classico. E Alvaro, con Gente in Aspromonte, l’ha fatto. Sul filo della sua prima memoria, lo scrittore narra e giudica il tempo che ha ritratto con intensità e lucidità di giudizio nei diari e nei racconti di viaggio. Gli uomini e le donne dell’ultimo lembo della Calabria sono protagonisti di un’epoca che annuncia continuamente la sua fine, e nel quale si deve vivere, tuttavia (con speranza). Riprodurre la loro esistenza è restituire valore all’umano come virtù collettiva e non riduttivamente individuale.

L’uomo – si è detto – è il solo animale che abbia bisogno di dare una riproduzione delle sue azioni e della sua immagine. Ma questa ha più o meno valore ai suoi occhi, secondo il valore che attribuisce alla vita.ii

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Il tempo in cui l’illusione della riproduzione della realtà (nella scrittura come nei mezzi audiovisivi) ha fatto dimenticare a molti che la mimesi è un procedimento, convenzionale quanto ogni altro procedimento, e che la literaturnost’ (la letterarietà jakobsoniana) si trova all’interno dell’opera, e solo in esso. Consapevolmente o meno, l’autore crea procedimenti che allontanano ciò che scrive dalla cronaca, dal “realismo convenzionale”.iii Usa un linguaggio che penetra la parola per renderle la potenzialità espressiva annullata dall’abitudine. La realtà non si può riprodurre, la si può solo traslare. Ma questo significa, per chi scrive, poterne dire di più di quello che la quotidianità consente (e in questo risiede la bachtiniana responsabilità dell’autore nei confronti della vitaiv).
È dunque solo all’interno dell’opera che va cercato lo specifico letterario, non nella biografia dell’autore, o nell’esame storico del suo tempo (pure necessari per comprendere ciò che, fuori dal testo, crea pre-testi funzionali alla sua poetica) – non nelle pretese di un legame diacronico che risolva la lettura critica garantendola con elementi esterni:

Il materiale utilizzato dalla letteratura, sia letterario sia extraletterario, può essere introdotto nel dominio della ricerca scientifica soltanto se lo si considera da un punto di vista funzionale.v

Un classico è un’opera la cui literaturnost’ è produttiva, crea generi e individua strade lungo le quali la narrazione percepisce nuovamente la sua funzione universale (perché convenzionale). La lucidità del pensiero si materializza in un ordine espressivo necessario, inutilizzabile dalla retorica della semplificazione e dello spettacolo (e ogni epoca ha il suo, come già intuito da Alvaro, e detto assai chiaramente dopo di lui da Debord e Pasolini).

Uno scrittore non si deve mai spaventare di dire troppo né di non essere inteso. Bisogna che egli rifletta che, se una serie di pensieri e di immagini e di concetti si riproducono in lui, egli non è un fenomeno singolare e unico e incomunicabile, ma un uomo come tutti gli altri, sebbene dotato di strumenti di percezione e di indagine non comuni ma acquisiti rivolgendo sempre il suo spirito alla rappresentazione. […] uno scrittore non si deve mai proporre il problema d’essere più o meno attuale. Se egli è se stesso, veramente, egli è attuale, e solo così può lavorare utilmente alla formazione della sua società, intuirla e rispecchiarla.vi

Un autore di classici è chi, scrivendo, non si pone altro scopo se non quello della sua responsabilità e, dunque, del lavoro interno alla literaturnost’, necessarioper farsi voce di chi non ha voce, occhi di chi non riesce più a vedere. Alvaro è un autore di classici. Tra i suoi contemporanei è tra i pochi ad avere così tanta consapevolezza della propria responsabilità, tanta coscienza della propria scrittura. Sin dalle opere giovanili, che contengono in nuce i procedimenti e la lingua della maturità.vii E Gente in Aspromonte è il più compiuto tra i suoi classici. Ne è prova l’esordio – la potente immagine delle fiumare in piena – che condensa in sé il procedimento della raccolta.

Il lavoro letterario costa fatica. In me succede dopo una serie di prove e di assaggi, in cui la fatica maggiore è la ricerca dell’attacco del discorso. Un buon principio, che ha anche un carattere musicale, di intonazione, porta avanti molto il libro.viii

L’esordio di Gente in Aspromonte introduce a un libro che seguirà l’andamento di una fiumara. “I torrenti hanno una voce assordante”ix. A quella voce Alvaro fa narrare le storie di uomini e donne (soprattutto donne), che partono dalla Montagna e arrivano in città (da Gente in Aspromonte a Ventiquattr’ore). Un procedimento ritmico-simbolico che fa da cornice interna alla narrazione polifonica della storia (minima e perciò vera) e della fatalità:

I calabresi hanno un senso della fatalità; concepiscono la vita sull’immagine delle loro fiumare che presto o tardi travolgono ogni cosa. “Piegati, albero, che passa la piena”, è un loro motto.x

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La fatalità non possiede l’andamento dei grandi fiumi, dei quali si possono prevedere le inondazioni, e che, volendo, possono essere fatti rientrare nello spazio e nel tempo dell’uomo. L’andamento del fiume è la diacronia della storia. La fiumara, invece, è imprevedibile. Improvvisa, distrugge vite e cose, con una violenza che non suppone possibilità di argine. L’andamento della fiumara è sincronico, com’è il destino, che si compie in un punto di spazio e di tempo, improvviso e inattendibile, dopo il quale tutto è cambiato.xi Così è nei singoli racconti di Gente in Aspromonte e nel loro susseguirsi, dall’origine della corsa dell’acqua (la vita dei pastori nella montagna) alla sua fine (l’alienazione cittadina), così veloce da ignorare tempo e spazio. Nel fluire della fatalità, la storia mostra la sua insensatezza diacronica, lascia spazio alla “favola” dell’esistenza nella sua nudità e nella sua astrazione figurale.

No, la storia non ha senso. Ne ha molto di più la vita, se non altro per questo, che quando non ci si crede più ci si accomoda a mostrar di credere e, perché ci sono i ragazzi che hanno bisogno di una fede, se ne fa una favola.xii

La fiumara di Gente in Aspromonte inserisce nel suo ritmo innanzitutto la natura, che non fa da sfondo, ma partecipa al dramma di uomini e donne, straniandolo, esaltandolo, rendendolo nuovamente alla nostra percezione (com’è nel finale di Coronata, Teresita, Innocenza, La signora Flavia, Vocesana e Primante, Cata dorme, e nell’esordio di Gente in Aspromonte, La pigiatrice d’uva, Temporale d’autunno, Ventiquattr’ore). Poi si fa polifonia di chi non ha voce. Prime fra tutte le donne, per le quali la fatalità è legata all’amore, nell’illusione o nella volontà di cambiare una vita soffocata da una società che assiste alla loro emancipazione temendola e frenandola (e anche qui la riflessione non si deve ridurre all’Aspromonte). La pigiatrice d’uva, La zingara, La signora Flavia, Teresita narrano dell’impossibilità di cambiare il proprio destino quando non si può cambiare la propria identità sociale. In Romantica e in Temporale d’autunno, invece,l’amore è solo destino, ma un destino che forza l’identità, permettendo (quanto meno) l’illusione della libertà. Così come in Coronata, racconto di una fuga d’amore protetta dalla montagna, nel quale torna ancora la potente immagine della fiumara (le parole di libertà di Coronata “erano coperte dalla voce dei fiumi profondi”xiii). In Innocenza, infine,l’amore, arrivato e partito nel tempo minimo del destino, riscatta lo sfregio, anche se non può sanarlo. La fatalità accompagna dunque la narrazione delle donne di Gente in Aspromonte come un’ombra che si sdoppia, aprendo strade che possono richiudersi nel modo più tragico, o far intravedere uno spazio libero, simile a quello del mare in cui la fiumara finisce la sua corsa.

Nella Lunga notte di Medea, la maga della Colchide dice a Creonte, quando sa di essere ormai perduta: Ma io ho paura! Ora sono io che ho paura. Perché non c’è più nessuno con me, se non il destino.xiv

Nella fatalità rientra anche il destino sociale degli uomini. Nel ritmo della fiumara affonda e riemerge la giustizia dei vincitori e dei vinti. Il calabrese, scrive Alvaro “ha il senso dell’autorità come un fatto irrazionale e indiscutibile”, pur sapendo che “si tratta sempre di una autorità di uomini”.xv Così, in Gente in Aspromonte,Antonello, tornato in montagna non più da pastore ma da latitante, “aspettava la sua sorte”,xvi nell’illusione di potersi fare giustizia da solo. E nei due racconti finali (Cata dorme e Ventiquattr’ore), il destino ha la forma del silenzio e dell’attesa dell’irrimediabile, che rimane nella coscienza dell’uomo “idillico” (Bachtin) perso nel labirinto della città, nella sua logica del profitto e dello sfruttamento, nella quale si annulla umanità e dignità.

Il vincitore si identifica con la giustizia, e la storia la scrive chi vince.xvii

Questo dice Alvaro, pensando al sangue, reale e metaforico, sparso da chi scrive la storia. Fatalità, però, non è giustificazione dell’inazione, e tanto meno mitopoiesi che la giustifichi. Alvaro lo ribadisce continuamente. Gente in Aspromonte ne è la testimonianza.

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Dei Greci, i meridionali hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l’accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello.xviii

In Il rubino,la pietra preziosa, scambiata per un qualunque cristallo rosa, diventa il portafortuna di un emigrante, e non la sua fortuna. L’ingenua onestà di chi non cerca il favore del destino, ma la dignità acquisita con il lavoro, è immagine della volontà che riscatta piaghe e miserie. Il destino esiste anche per essere ignorato, a vantaggio dell’agire.

Resiste ancora una chiave di lettura che, ignorando volutamente la literaturnost’ delle opere che esamina, individua in una serie di scrittori e nella loro produzione specificità territoriali/regionali distintive. Esistono dunque la sicilianità, la napoletanità, la calabresità e così via, che creano nell’ambito letterario un’identità pretestuosa (pre-testuale). Come se riducendo l’opera di alcuni autori a una supposta radice antropologica, gli si rendesse un riconoscimento di particolare valore. In uno scrittore la radice culturale/antropologica è ineludibile, certo. Ma lo scrivere è un’azione convenzionale, dunque necessariamente straniante – lo abbiamo già detto – e perciò responsabile.

Ricordati di essere artista, soltanto artista, cioè uomo. Così potrai servire il tuo paese e te stesso.xix

Le radici di chi scrive sono necessarie a lui, non alla sua scrittura (il “quadro emotivo”xx di cui scrive Alvaro). Anche un’autobiografia è un falso. Però, è proprio la lontananza da elementi di verosimiglianza, di naturalità, che, creando lo specifico letterario, rende produttiva la scrittura, attribuendole il tratto della classicità, ossia della resistenza al limite cronotopico. Gente in Aspromonte è un classico perché è impossibile relegarlo all’Aspromonte o alla calabresità. Alvaro non scrive presupponendo un’appartenenza tanto astratta quanto limitante. Il suo Aspromonte non è la sua natura, è la sua scrittura. E d’altro canto, Alvaro dice espressamente che l’autobiografismo gli è ideologicamente avverso, perché fa perdere “il sentimento del prossimo”:

Dopo l’arte autobiografica, la politica e le manifestazioni autobiografiche. Tutto diventa autobiografia. Sentimento dei rapporti perduto, e perduto il sentimento del prossimo.xxi

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Superata la limitazione dell’elemento autobiografico, Alvaro, che sa bene che “il sud è necessario per scaricarsi la propria cattiva coscienza”,xxii indica, a partire da Gente in Aspromonte, la strada della consapevolezza che fa nascere dall’interno il bisogno di dignità che segue le stesse strade della dignità propria dell’umanità tutta. Lo scrittore sa bene che non è mitizzando il vittimismo del sud o il suo verso, l’orgoglio identitario, che si lotta per esso. La mitizzazione è la scorciatoia di chi si autoassolve. E Alvaro non accetta scorciatoie. La responsabilità bachtinianaglielo vieta. La sua scrittura lucida ed essenziale, la sua coscienza della literaturnost’ lo rendono perciò scrittore imprescindibile, nel mediocre dello spettacolo che sostituisce la vita. E fanno di Gente in Aspromonte un classico che restituisce autorevolezza “alle cose più serie della vita”.

Il partito più disperato degli scrittori mediocri è sempre quello di scomodare i fatti fondamentali della vita, i sentimenti più elementari, per ottenere consensi. E trattare a cuor leggero tali cose, predicarle, proporsele sempre, porta a una insensibilità morale e al cinismo. Bisogna aver timore e pudore delle cose più serie della vita, non parlarne troppo, altrimenti si finisce col non credervi più.xxiii

i C. Alvaro, Quasi una vita, Bompiani Milano 1950, p. 260.

ii C. Alvaro, Ultimo diario, Bompiani Milano 1959, p. 9.

iii C. Alvaro, Quasi una vita, cit., p. 347.

iv «Quando l’uomo è nell’arte, egli è fuori della vita, e viceversa. Tra esse non c’è unità e reciproca compenetrazione interiore nell’unità della persona. Che cosa allora garantisce il legame interiore degli elementi della persona? Soltanto l’unità della responsabilità. Di quello che ho vissuto e compreso nell’arte devo rispondere con la mia vita affinché tutto il vissuto e il compreso non resti in essa inattivo», Michail Bachtin, L’autore e l’eroe, Einaudi Torino 1988, p. 4.

v Roman Jakobson Jurij Tynjanov, Problemi di studio della letteratura e del linguaggio in I formalisti russi Einaudi Torino 1968, p. 147.

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vi C. Alvaro, Ultimo diario, cit., p. 220.

vii Cfr. C. Alvaro, Un paese e altri scritti giovanili (1911-1916), Donzelli Roma 2014.

viii C. Alvaro, Ultimo diario, cit., p. 220.

ix C. Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti Milano 1957, p. 7.

x C. Alvaro, Quasi una vita, cit., p. 234.

xi Cfr. C. Alvaro, L’urlo del torrente, in Un treno nel sud, Rubbettino Soveria Mannelli 2016, pp. 109-114.

xii C. Alvaro, Ultimo diario, cit., p. 23.

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xiii C. Alvaro, Gente in Aspromonte, cit., p. 128.

xiv C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Bompiani Milano 1966, p. 58.

xv C. Alvaro, Itinerario italiano, Bompiani Milano 1941, p. 226.

xvi C. Alvaro, Gente in Aspromonte, cit., p. 87.

xvii C. Alvaro, Ultimo diario, cit., p. 182.

xviii C. Alvaro, Quasi una vita, cit., p. 199. “La «Calabria fa parte di una geografia romantica» si lamentava Alvaro, fatta di miti antichi riattualizzati e di mitizzazioni che assumono il valore dei miti antichi per esorcizzare miseria e sconfitta nell’affermazione di un passato glorioso, mai esistito o non più esistente, evolvendo inesorabilmente in stereotipo di ritorno, ossia negazione della lettura critica necessaria alla coscienza che superi il ribellismo” (F. Tuscano, L’Aspromonte. Mito, mitizzazione, stereotipo, in P. Tuscano, F. Tuscano La montagna raccontata, in La montagna calabrese, Rubbettino Soveria Mannelli 2020, p. 304).

xix C. Alvaro, Quasi una vita, cit., p. 295.

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xx C. Alvaro, Ultimo diario, cit., p. 220.

xxi C. Alvaro, Quasi una vita, cit., pp. 171-172.

xxii C. Alvaro, Ultimo diario, cit., p. 168.

xxiii Ivi, p. 201.

L’immagine

L’immagine è la prima pagina del manoscritto Un paese scritto da Corrado Alvaro e da lui donato nel 1940 all’amico di Liceo a Catanzaro, Domenico Lico. Alvaro lo consegna all’amico scrivendo: «Un Paese (1916). Tentativo di Romanzo. Mio padre scrisse: “C’è un manoscritto redatto da Alvaro, qualificato da lui stesso come il primo tentativo di Gente in Aspromonte fatto a Livorno nel giugno 1916 tra un’operazione chirurgica e l’altra dopo le ferite riportate in combattimento nella 1a grande guerra”. Alvaro». Il racconto Un paese, che era del tutto sconosciuto, è stato pubblicato integralmente, in Corrado Alvaro, Un paese e altri scritti giovanili (1911-1918), a cura di Vito Teti, con uno scritto di Pasquale Tuscano, Donzelli, Roma 2014. L’Archivio Lico, oltre a “Un paese”, contiene poesie, racconti, un dramma scritti nel periodo giovanile. Di estremo interesse la Biografia su Alvaro di Domenico Lico (inedita), la corrispondenza (inedita) tra Alvaro e Ottavia Puccini, Lico, Foderaro e altri amici e la corrispondenza tra Domenico Lico e Ottavia Puccini. L’Archivio Domenico Lico è custodito presso il Centro di Ricerca Demoetnoantropologica “Raffaele e Luigi M. Lombardi Satriani” Memorie – Futuri – Intelligenze nel tempo – Unical. (redazione@corrierecal.it)

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