Pensioni, chi sono i 396 mila italiani che ricevono l’assegno da oltre 40 anni

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Una vita in pensione, si potrebbe dire. In Italia ci sono quasi 400 mila persone che ricevono l’assegno di previdenza da oltre quaranta anni. Baby pensionati che, in media, hanno iniziato a percepire la rendita a poco più di 39 anni di età: 36,4 anni gli uomini e 39,5 le donne. Giusto per fare un confronto, le età medie dei lavoratori andati in pensione nel 2023 erano rispettivamente di 67,5 anni per la vecchiaia, 61,5 anni per le anticipate e i prepensionamenti, 55,7 anni per le invalidità e 77,7 anni per le prestazioni ai superstiti degli uomini del settore privato. «Siamo troppo oltre quel paletto dei 20-25 anni di durata della pensione che dovrebbe rappresentare il punto di mediazione tra periodo di lavoro e tempo di quiescenza», spiega Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali, il Centro Studi che ieri alla Camera ha presentato il suo dodicesimo Rapporto “Il Bilancio del sistema previdenziale italiano”. «Oggi», spiega Brambilla, «la situazione è diversa perché i requisiti di accesso alle prestazioni, dopo le varie riforme, sono diventati inevitabilmente più alti, ma è evidente che questi dati non possono essere trascurati quando si affronta il tema dei requisiti di pensionamento, tanto più in un Paese dall’elevata aspettativa di vita come il nostro».

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I numeri

Ma cos’altro dice il rapporto? Intanto che aumenta il numero di pensionati, che salgono dai 16,131 milioni del 2022 ai 16,230 milioni del 2023 ( un aumento di 98.743 persone). E poi che prosegue la netta risalita del tasso di occupazione, che ha riportto a quota 1,4636 il rapporto tra attivi e pensionati, che fa segnare il miglior dato di sempre nella serie storica. Quest’ultimo è un dato importante. Il sistema previdenziale è in equilibrio se questo rapporto è di 1,5 almeno. L’Italia si sta avvicinando sempre più a questo margine di sicurezza. La stabilità futura, spiega il rapporto, dipenderà nei prossimi anni sia dalla capacità di porre un limite alle troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero e all’eccessiva commistione tra previdenza e assistenza, sia da quella di affrontare adeguatamente la transizione demografica in atto. Sul rapporto tra attivi e pensionati, il rapporto stima inoltre un ulteriore miglioramento, ma serve investire in politiche industriali che rilancino la produttività e limitino il mismatch tra domanda e offerta. «Malgrado i molti catastrofisti, i conti della previdenza reggono e dovrebbero farlo anche nel 2035-2040, quando la maggior parte dei baby boomer sarà pensionata», ha aggiunto ancora Brambilla, che ritiene necessaria l’applicazione puntuale degli stabilizzatori automatici dell’adeguamento dell’età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita. Ciò che invece sarebbe giusto fare, secondo Brambilla, è bloccare l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, con riduzioni per madri e precoci, e prevedendo un superbonus per chi resta al lavoro fino ai 71 anni. Uno dei temi cruciali resta quello della separazione tra spesa previdenziale e spesa assistenziale. Nel 2023, sono stati destinati a pensioni, sanità e assistenza 583,712 miliardi, con un incremento del 4,32 per cento su base annua. La spesa per prestazioni sociali ha assorbito il 50,93 per cento del totale. Rispetto al 2012, la spesa per welfare è aumentata di 151,448 miliardi strutturali ( con un più 35 per cento), soprattutto per oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 137,25 per cento (+78 miliardi) a fronte dei 56 miliardi della spesa previdenziale (+26,53 per cento) e del 29,26 per cento del Pil.

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Il conteggio

Senza conteggiare la spesa assistenziale all’interno di quella pensionistica, il sistema sarebbe perfettamente in equlibrio. L’Inps ha incassato 236 miliardi di contributi e ha pagato pensioni (al netto dell’Irpef incassata dallo Stato sugli stessi assegni) per 182 miliardi. «Una corretta classificazione tra spese assistenziali e previdenziali», ha detto Brambilla, «è fondamentale per evitare sovrastime che potrebbero influenzare negativamente le valutazioni delle agenzie di rating e indurre l’Europa a richiedere tagli ingiustificati alle pensioni».

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