«Il Green deal cambi subito rotta altrimenti azzeriamo l’industria»

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Ormai è chiaro, nella corsa alla competizione globale vince chi ha i costi dell’energia più bassi, chi ha le materie prime e chi sta accompagnando la transizione costruendo nuove filiere senza distruggere l’industria tradizionale. Cina e Usa stanno stritolando l’Ue.

Dario Stefàno, come la vede da manager e docente universitario, già parlamentare, e oggi vicepresidente nazionale di Assogasliquidi-Federchimica, siamo in tempo per cambiare rotta sul Green deal e sfuggire alla condanna di perdere su tutti i fronti?

«In effetti siamo in una fase critica della transizione energetica. Partiamo dalle cause e cioé dall’impostazione ideologica della transizione. Tempi e modalità imposti sono inconciliabili con qualunque modello industriale sostenibile. Così abbiamo smantellato intere filiere produttive, come l’automotive, senza avere valide alternative. Nello stesso tempo, il sistema manifatturiero è stato indebolito, senza strumenti adeguati per alimentarsi energeticamente».

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Demonizzare ogni legame con i combustibili fossili a cosa ha portato?

«Al blackout energetico e produttivo. Oggi l’elettricità da fonti rinnovabili copre solo una piccola percentuale del fabbisogno. Mentre nel 2024 si stima che le fonti rinnovabili non abbiano soddisfatto nemmeno il 40% della domanda elettrica nazionale. Non basterebbe poi che tutti i progetti in corso andassero a buon fine per superare questa soglia considerato il fabbisogno energetico in costante crescita».

Neanche accelerando al massimo quindi ce la faremmo a coprire il raddoppio previsto della domanda spinto anche dall’Intelligenza artificiale?

«Finiremo per dover produrre gran parte della energia elettrica necessaria ma attraverso fonti fossili, un capolavoro!»

Colpa dell’elettrificazione che non ha avuto il giusto passo?

«Certo, ma era anche facile prevederlo. Abbiamo eliminato la filiera dell’auto, ma non siamo riusciti a sviluppare una filiera dell’elettrico in grado di sostituirla. E senza infrastrutture adeguate rischiamo di dover dipendere ancora dal carbone ma – paradossalmente – per alimentare l’elettrico, magari prodotto altrove – con un effetto boomerang che contraddice gli obiettivi della transizione e uccide interi sistemi produttivi».

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Anche la finanza ha dirottato gli investimenti?

«Molte banche hanno smesso di finanziare progetti legati alla filiera del variegato mondo dei combustibili fossili, anche di quelli come il gas che abbattono il 50% delle emissioni. Senza capitali, le aziende non possono innovare, la ricerca si ferma e gli investimenti nella transizione si riducono. Questo rischia di spingere le imprese verso mercati meno regolamentati, aggravando il problema globale delle emissioni anziché risolverlo. Invece le istituzioni finanziarie devono adottare un approccio di finanza responsabile, investendo in aziende che si impegnano a ridurre le emissioni e adottare nuove tecnologie.

Come riparare ora?

«Serve un Green Deal meno dogmatico, senza estremismi. La soluzione non è la chiusura drastica di intere filiere, ma un percorso graduale, che accompagni le industrie nella transizione con tempi sostenibili e un mix intelligente».

Quindi va riconosciuto al gas il suo ruolo nella transizione?

«Assolutamente sì. I dati dimostrano che il gas abbatte del 50% le emissioni e rispetto ad altre componenti di provenienza fossile, rileva minori criticità logistiche. Ci vuole più coraggio nell’ammettere le oggettive differenze tra i vari combustibili assicurando, al contempo, sopratutto nel centro sud soluzioni infrastrutturali di stoccaggio che riducano la dipendenza dalle fluttuazioni di prezzo».

Il cambio è di strategia, quindi, non solo regolamentare.

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«Serve un periodo di transizione credibile, con misure che incentivino la trasformazione industriale senza desertificare intere filiere produttive».

E l’Italia?

«Dovrebbe finalmente approdare a misure di politica industriale che sostengano l’impegno del sistema produttivo, partendo dalla necessità di superare la sindrome di NIMBY che impedisce al paese di dotarsi di infrastrutture indispensabili. Per avere una autorizzazione spesso non basta nemmeno un quarto di secolo. E tutto questo ci rende irrimediabilmente troppo poco competitivi».

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