Chiacchierando con Angelo Carotenuto – Giuditta legge

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Approfitto dell’occasione di confrontarmi direttamente con Angelo Carotenuto, per fare un annuncio pubblico, dopo averlo fatto privatamente a tutti i docenti con i quali sono a contatto quotidiano: leggete Viva il lupo, pubblicato per Sellerio. È il miglior corso di formazione che possiamo frequentare. Allargo la platea a tutti coloro che sono a contatto con giovani e giovanissimi nella relazione inebriante e pericolante della cura e accompagnamento nei processi di crescita e di formazione del sé.

Per me leggere Viva il lupo è stata un’esperienza profondamente trasformativa, avvincente e dolorosa, secondo la lezione eschilea dell’imparare attraverso il dolore. In questo caso il dolore del protagonista, Gabriele Purotti, cantante rock e giudice del più conosciuto talent show musicale televisivo, Viva Il Lupo, e di Tete, con i suoi sedici anni falciati da un treno in corsa, mentre attraversava con il monopattino un passaggio a livello, e della nonna e del fratello di Tete, che devono fare i conti con lo spreco di tale talentuosa giovinezza.

In quale posizione ti sei messo, Angelo, per raccontare una storia così piena, densa, ricchissima e incisiva, come è quella raccontata in Viva il lupo

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RISPOSTA: Viva il Lupo è nato come uno di quei giochi enigmistici: unisci i puntini. 

Mi è parso che nell’aria ci fossero una serie di elementi che si tenevano e che potevano stare insieme in un racconto di fantasia che contenesse elementi della realtà, un racconto che si muovesse cioè dentro la cornice delle relazioni tra adulti e adolescenti. Il puntino più grande di tutti era la parola “fragilità”. A un certo punto mi sembrava di vederla e di sentirla ovunque, come una specie di password, una parola d’ordine sempre pronta a salire sulle labbra di noi adulti per esprimere un parere giusto, un parere esatto, sui nostri ragazzi e le nostre ragazze. Sono fragili. Una soluzione facile facile, pronta per l’uso, una parola chewing gum, masticata, rimasticata e scaraventata addosso agli adolescenti come fosse una colpa, un guasto di fabbrica: che ci vuoi fare, sono nati così. Ero all’asilo nel ’68 e alle scuole medie nel ’77, ma qualche forma di piccola ribellione l’ho vista anch’io, quella vecchia banale meravigliosa illusione di poter cambiare le cose che vivi verso i sedici, i diciassett’anni, praticamente l’età in cui i grandi non capiscono i piccoli, e viceversa. Cambiano solo le forme del malinteso e delle barriere, cambiano gli oggetti di scena dello scontro: una volta era il walkman che ti isolava dal mondo, adesso è lo smartphone che non si sa se isola o iperconnette. A me pare ingeneroso accusare i piccoli di essere dei rammolliti. Mi pare invece che siano stati condannati a portare il peso del mondo che gli stiamo consegnando, un mondo peggiore di quello che noi abbiamo ricevuto in eredità. Appartengono alla prima generazione che sa con certezza di non poter avere una condizione migliore di quella dei genitori. Gli abbiamo consegnato un pianeta in sofferenza; un’Europa che vogliamo riempire di filo spinato dopo avergli detto che dovevano imparare le lingue straniere perché confini non ne esistono più; gli abbiamo consegnato un Paese con un debito pubblico che dovranno pagare loro; un futuro che non gli garantirà la pensione e un presente che li priva di un reddito, di una casa, della possibilità di accedere a un prestito in banca. Bisognerebbe chiedergli scusa per quello che abbiamo combinato, invece gli diciamo pure che sono fragili, sono guasti, senza domandarci il disagio da dove venga. Sono invisibili per la politica o irredimibili per i giornali quando finiscono dentro qualche fatto di cronaca. 

Mi sono messo insomma nella posizione di chi prova a osservare senza pregiudizi questa misteriosa avaria che è intervenuta nel passaggio di consegne fra noi e loro, senza nessuna certezza che sia per colpa loro. Finché mi è parso che il set migliore per una storia del genere fosse il mondo della musica, anzi la musica per la televisione. Non è proprio la stessa cosa. La musica dei talent show.

Ed è proprio il set insolito e forse per questo così illuminante della relazione discente/docente e più in generale quella tra adolescenti/adulti a rendere Viva Il lupo un racconto straordinario con il quale confrontarsi di pagina in pagina, riconoscersi o misconoscersi.

Colgo la suggestione implicita nella tua risposta e ti chiedo il perché di questa scelta, così precisa e puntuale nella sua caratterizzazione, la musica dei talent show, e così generale nella sua carica esemplificativa ed emblematica. 

RISPOSTA: La musica è un territorio nel quale da adolescenti ci si muove sempre allo stesso modo, nei secoli dei secoli. Un mondo in cui abbiamo cercato e si cercano frammenti di sé stessi, da riconoscere e da ricomporre, qualcosa o qualcuno da cui essere rappresentati. Una band è il primo partito politico al quale ci siamo iscritti. La musica è la lingua dell’adolescenza. Sono i testi scritti che più volentieri impariamo a quell’età. È la lingua del sentire. È così per chi ha sedici e vent’anni oggi, è stato così per chi li aveva nel 1975, 1985, 1995. È l’età in cui stai cercando un posto nel mondo anche se ne sei inconsapevole. Vedi tutte le ingiustizie, tutte le sconcezze, sogni di ribaltarle. Spesso è un desiderio, o un dolore, che prende la forma delle parole dei cantanti, un inno di protesta, una strofa incazzata. Eppure cadiamo sempre e tutti nella stessa trappola: ritenere speciali i nostri vent’anni, certamente migliori di tutti i vent’anni successivi. È sempre un’altra cosa, la vita degli adulti rispetto a quella dei giovani. 

La musica è il riflesso perfetto di tutto questo. Siamo tutti convinti che non esistano più le belle canzoni di una volta, le canzoni di quando eravamo giovani noi. Negli anni Sessanta i barbari erano gli urlatori: i Modugno, Mina e Celentano rispetto a Claudio Villa e Nilla Pizza. Negli anni Settanta i barbari erano i cantautori. Adesso ci sono i rapper e ci sono i trapper. Sarà così fra trent’anni, quando i ventenni di oggi troveranno barbaro chissà chi pensando che non ci sono più i Geolier di una volta.
La musica per la televisione e il meccanismo dei talent show offrivano poi un’ulteriore opportunità. Nel meccanismo dei talent show sono centrali ascolto e giudizio, due colonne di questa storia che parla di silenzi e malintesi tra le generazioni, del disagio di una società di adulti fragili, persuasi che la fragilità sia dei giovani. Ai talent succede una cosa rara in questo paese: viene data un’occasione a dei giovani. Spesso anche molto giovani. C’è un gruppo di adulti disposto ad ascoltare cos’hanno da dire, i loro sogni, la loro passione. Stanno addirittura là per quello, per abbattere il muro di incomprensione che esiste fra due sponde.
Viva il lupo è un romanzo sul dolore e la paura di essere adulti, essere padri e madri che faticano a farsi carico della responsabilità di una relazione, che cadono nella tentazione di essere amici, complici, compagni; vivono come protesi, come le chele dei loro piccoli granchi, troppo presenti quando sarebbe consigliabile lasciare spazio e autonomia, improvvisamente fantasmi nel momento del bisogno. Qualcuno non vede, altri non vogliono vedere, tutti sgomenti in questa furibonda lotta dei grandi per capire i piccoli, con una dolorosa consapevolezza di impotenza che confonde e smarrisce, manda alla deriva. Un vuoto nel quale trova spazio e forza qualche forma di genitorialità supplente, qualche figura-guida che ragazze e ragazzi cercano e trovano altrove, spesso nei nonni.

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Mi piace la definizione di genitorialità supplente, e riconosco che è un elemento importante in Viva il lupo, in cui di fatto i genitori sono scomparsi. Tete e il fratello, infatti, sono affidati alla nonna, che è personaggia straordinaria del romanzo; Gabriele Purotti ha una figlia, Vicky, ma vive la relazione a una certa distanza, mentre necessariamente la relazione con il fratello di Tete, Ardo, deve poggiarsi su altre basi, quelle della complicità e dell’ascolto. Del mettersi all’altezza di bambino e da lì spiegargli la vita ma anche guardarla da un’altra angolatura.

In questo incastro di generazioni, perché il tassello dei genitori è rimasto vacante? E quale caratteristica ha invece la generazione dei nonni tale da rendere loro possibile adempiere il ruolo di figura-guida?

RISPOSTA: I genitori di Viva il lupo sono tutti un po’ dei fantasmi, sono dei naufraghi o degli smemorati, o sono assenti o non ricordano di essere state madri e padri. Sono come quelle sculture di Henry Moore, astrazioni di figure umane, sono corpi adagiati, con un buco dentro. Lungo il suo percorso Puro intuisce che i genitori della prima metà del Novecento, con due guerre mondiali alle spalle, avvertivano l’urgenza di garantire ai figli il cibo, la materiale sussistenza. I genitori della seconda metà del Novecento si preoccupavano invece di veder crescere i figli sani, magari facendo sport, e soprattutto colti, volevano che studiassero perché non sempre loro avevano potuto. I genitori contemporanei sono degli sconfitti in partenza, sono votati alla frustrazione e al fallimento perché per i loro figli e le loro figlie desiderano qualcosa di irraggiungibile: tenerli al riparo dal dolore, desiderano la loro felicità.  È questa la deriva in cui finiscono per sprofondare. Deve esistere una specie di senso di colpa per essere rimasti prigionieri delle dinamiche del mondo del lavoro. Forse è una reazione dinanzi alla fatale condizione di non poter trascorrere tanto tempo in casa. La frustrazione dei figli è vissuta come un atto d’accusa a sé stessi. Se un professore mette un 4 in chimica, spesso i genitori avvertono quel 4 come un giudizio sulla loro incapacità di aver educato o vigilato o scegli il verbo che preferisci. Anche la tentazione di riempire le loro giornate di altro, l’inglese, la chitarra, il judo, deve essere un riflesso di questo senso di colpa. Ma è una percezione quasi esclusivamente adulta. I cuccioli hanno sempre trovato il modo di trovare un equilibrio rispetto allo spazio e al tempo che vivono. Lo hanno fatto sotto le bombe quelli del Novecento, lo fanno e lo faranno quelli di oggi. La famosa fragilità degli adolescenti spesso è il riflesso di una fragilità adulta. Non voglio dire che sia solo una percezione dei grandi, ma è come se i grandi attaccassero il proprio amplificatore al suono del disagio giovanile. I ventenni sanno cavarsela più di quanto noi genitori siamo propensi a riconoscere. Questo incrocio psicologico non esiste invece nel rapporto con i nonni: mi pare un tratto molto forte di questi ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia. Forse fa bene al rapporto la distanza generazionale superiore. Forse gli adolescenti riconoscono più facilmente una guida adulta nei nonni che in un genitore così assorbito dalla medesima cultura digitale, un genitore che usa e abusa dello smartphone, guarda i film sulle piattaforme, sta sui social, si comporta insomma come dentro un tempo di adolescenza prolungata. Quando ho chiesto a qualche adolescente che cos’è che non gli piacesse di un genitore o di un insegnante, mi sono sentito spesso rispondere: sta sempre al cellulare. Esattamente ciò che gli adulti credono di poter rimproverare a loro.

Attraversiamoli gli adolescenti che racconti in Viva il lupo. Tete e Ardo, con il loro incredibile e straordinario talento, e l’immane vulnerabilità, che si incista in quella di Gabriele Purotti, che non ha più voce e non sa come farsela tornare.

Cosa c’è nel loro mondo? Cosa ci scopre Gabriele Purotti, e noi con lui?

RISPOSTA: Di Tete sapremo solo quel che Puro riuscirà a ricostruire parlando con sua nonna Linda e un giorno con la sua amica Greta, una versione ridotta di Tete, una mezza porzione, come in fondo ridotta è sempre la nostra conoscenza di chi abita nella camera accanto alla nostra ed è molto di più di una figlia o una nipote, contiene altri mondi, a un certo punto apre la porta, saluta, esce e frequenta altre persone, altri luoghi dove non arriviamo, fa altri discorsi, e chissà cosa pensa, chi influenza, da chi si lascerà influenzare, quali incontri farà. Noi salutiamo e diciamo: stai attenta, pensando di conoscere meglio le insidie della vita, sentendoci al riparo. Ma non si riesce mai a trasmettere il senso del pericolo adulto a un adolescente. Ardo è il fratello minore di Tete, un ragazzino speciale. Sarà la scoperta decisiva per Puro, cambierà la prospettiva della sua ricerca. È un quindicenne che lascia raramente e malvolentieri la sua stanza, lì dentro ha tutto quel che gli interessa, per esempio la sua tastiera, che adopera senza conoscere la musica. Ardo dalla musica si lascia attraversare, ma proprio attraversare fisicamente. Ascolta una canzone ed è in grado di riprodurla, anzi di più, è in grado di immaginare come sarebbe se al posto di una chitarra suonasse una tromba, se ci fosse un corno in quel punto, un oboe in quell’altro. Così le rivisita, direbbe uno chef, e le rende più belle. Nel loro mondo c’è il mistero, c’è la scoperta del corpo, c’è la tumultuosa chiamata alla vita che a suo tempo ha sconvolto noi e non lo ricordiamo. Gabriele scopre che non tutto quel che appare sotto una forma fragile è vulnerabilità. Può essere delicatezza, e una delicatezza la dobbiamo rispettare. 

La musica, onnipresente in Viva il lupo, gioca un ruolo determinante non solo sul registro malinconico e riflessivo che caratterizza il romanzo, ma anche sul versante ironico e giocoso che non manca nella narrazione. Ed è su questo crinale della narrazione che mi voglio spingere per salutarti.

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Oltre a personaggi di invenzione come Purotti e i componenti della sua band o i giudici del talent show, nel romanzo compaiono con grande credibilità e godibilità di chi legge figure reali del mondo musicale italiano. Tra tutti Gino Paoli, a cui regali un ruolo di giudice e osservatore delle vite dei protagonisti, imprescindibile.

Perché proprio lui? L’omaggio di un fan, il frutto di una ricerca sulla biografia del cantautore? O altro ancora?

RISPOSTA: Il Gino Paoli di Viva il lupo è una riscrittura immaginaria del Gino Paoli reale. Parla e dice cose inventate ma credibili. Ho cercato le frasi da fargli dire in alcune interviste che ha dato in questi anni. Negli archivi dei giornali ce ne sono alcune molto vecchie e molto belle: gli archivi sono posti fatati, meravigliosi, pieni di incantesimi. Così come è stata utile una sua biografia di una trentina d’anni fa ormai fuori catalogo. È pienamente dentro una finzione, parla e si relaziona con personaggi di fantasia, restando però fedele all’uomo che è, alla sua visione del mondo. Paoli agisce da nonno della canzone italiana e come Linda, l’altra nonna della storia, riesce a stabilire una connessione potente sia con Puro sia con Ardo, restando dolce e selvatico allo stesso tempo. Paoli entra nella storia quando Puro si interroga e si tormenta intorno alla possibilità che Tete si sia data la morte con un gesto volontario. Si illude di poter capire cosa succede nell’attimo in cui un’intenzione diventa un atto, com’è fatto l’ultimo secondo, il momento del clic. Crede di poter imparare qualcosa su Tete andando a parlare con Paoli, che negli anni Sessanta davvero provò a togliersi la vita. Imparerà in effetti molto altro, ma in modo del tutto imprevisto, come quasi sempre accade. Questo fa il caso, indirizza le nostre vite di qua o di là e si nasconde nel buio dietro una colonna, per vedere che faccia facciamo, per sentire che spiegazione ci diamo. Ci osserva, e ride. 



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