Daniela Pes domani fa il salto dell’Atlantico. Ne siamo felici, ma in parte preoccupati: e se poi si trova bene e non torna? Ha conquistato prima l’Italia, poi l’Europa e ora – noncurante delle minacce di dazi che affondano le borse europee – approda negli Stati Uniti. In valigia ha un disco di sette tracce – Spira – e la consapevolezza di chi ha portato il suo lavoro ininterrottamente in giro per due anni.
Dalla primavera del 2023 Spira ha riecheggiato almeno 130 volte nei club e festival del continente. Un’escalation impressionante, originata da una cantina di Tempio Pausania (13 mila abitanti, tra Sassari e Palau), e da uno scambio epistolare – poi sodalizio artistico – con Jacopo Incani, alias Iosonouncane.
Spira è scritto in una lingua che ancora non esiste, ma che ti sembra di aver sempre conosciuto. Un istinto primordiale solleticato al primo ascolto, che risulta in inspiegata familiarità. La sua musica è fatta di sospiri e grida, di straripanti densità e di assenze discrete, di silenzi che nascondono e abbondanze che non eccedono.
Se ti capita di vederla suonare una volta, poi ci dovrai tornare. Perché Daniela è una di quelle artiste in grado di sublimare il lavoro fatto in studio – per quanto alta già fosse l’asticella – e portarlo sul palco ad un altro livello. Tecnico, ed emotivo. Non utilizza parole, rinuncia ai messaggi letterali, ma trasmette condizioni emotive. Tanto nitide quanto fluide e cangianti. I suoi concerti sono come le prove dell’umanofono di Pekisch, il venerdì sera, in Castelli di rabbia: “Come sempre: dimenticatevi chi siete e lasciate fare alla musica.”
Se ti trovassi di fronte la tua cantante preferita, cosa le chiederesti?
Una bella domanda. Le chiederei forse quale sia stato il suo travaglio artistico.
Posso raccontarti che ultimamente ho ascoltato molto Doechii, rapper statunitense. Ho guardato molti dei suoi video. Mi sono sentita molto ispirata dai suoi racconti e dalla condivisione del suo percorso di vita. Dalla forza di volontà che devi avere per riuscire a fare quello che senti – dentro di te – essere giusto. Doechii, licenziata, senza niente da perdere, ha avuto la forza di chiudersi in casa a suonare e scrivere fino a provare a tutti quelli che esprimevano titubanze nei confronti del suo talento, che avevano torto. Le vorrei chiedere come ha affrontato quei pensieri, quei tormenti che ogni musicista attraversa prima di arrivare a concretizzare qualcosa.
C’è una forte immedesimazione. Ma anche del tormento comune.
Ogni giorno sento di dover proteggere a tutti i costi quello che ho costruito. Questa fatica, questo sforzo, questa lotta interiore svanisce solo nel momento in cui mi trovo sul palco. Sul palco si raccolgono i frutti, e tutto – per la durata del live – ha senso. Appena scesa dal palco, si ricomincia. Come evolverai? Come farai suonare il prossimo disco?
Il concerto come tregua e rifugio. In questi quasi due anni ti sei assicurata 130 rifugi, in tutta Europa. Come hai gestito questa escalation impressionante e come è cambiata la tua dimensione d’artista?
La vera sfida che io sento, come musicista, è quella del palco. Ricordo l’adrenalina del primo concerto, e tutte le incognite che racchiudeva. L’ambizione di riuscire a dare a Spira ulteriore forza. Una cosa non facile, perché alle mie orecchie già suonava compiuto, completo, grande. La mia paura era di non riuscire a portarlo in giro dandogli ancora più enfasi e vita nuova. E invece, fortunatamente, è quello che poi è successo.
In che momento ti sei resa conto che Spira era passato dall’essere qualcosa di prezioso solo per te, a un dono collettivo?
Per tutta la prima parte del tour ero a tal punto concentrata sul suonare bene, con precisione maniacale, che ho un po’ trascurato il sentire del pubblico. Io di indole diffido un po’ dalle manifestazioni di affetto e di commozione. Ho difficoltà a lasciarmi coinvolgere. Tendo a non staccare mai i piedi da terra. Mi sento – e credo continuerò a sentirmi – la ragazzina di vent’anni che suonava nei jazz club in Sardegna. È successo che da un giorno all’altro sono passata da zero a mille, e la musica è diventata il mio mestiere. Leader del mio stesso progetto, e delle mie idee. Un carico di responsabilità improvviso, che inizialmente mi ha portato ad essere esclusivamente concentrata sul portare a termine i concerti nel migliore dei modi. Volevo solamente che i concerti fossero belli, riempitivi. Prima di tutto per me. Spira ha significato tre anni di lavoro in cui io ho rinunciato ad esibirmi. Quando il tour è iniziato prima di tutto mi sono concentrata sulla mia soddisfazione musicale. Dopo un po’, le venue e i festival che mi chiamavano, iniziavano ad essere più grandi. Artisti che stimavo tantissimo, miei idoli da bambina, hanno iniziato a scrivermi. Mi hanno scritto bellissime parole sul disco musicisti e produttori esteri. Un’ulteriore risposta al fatto che assieme a Jacopo avevamo fatto qualcosa di autentico. Ho cominciato a lasciarmi andare di più, a godermi le persone che venivano con gli occhi lucidi dopo il concerto a ringraziarmi. A dirmi che Spira era stato un grande aiuto in alcuni momenti della loro vita. Messaggi meravigliosi, che mi hanno fatto capire che quello che scrivo può essere d’aiuto non solo a me, ma anche ad altri.
Foto: Piera Masala
Quel passaggio tra il La bemolle minore nona e il Si di Carme – ɛna ˈmɔɾa keˈkade ˈvia – continua a farmi venire la pelle d’oca, anche dopo un numero di ascolti vertiginoso. A te cosa fa venire la pelle d’oca?
I passaggi armonici di Tigran Hamasyan e Avishai Cohen. Alcuni brani di Ornella Vanoni. La maestria e la saggezza interpretativa di Sinatra, Chico Buarque, Elis Regina. Oppure, durante la composizione, l’emozione di scrivere qualcosa che senti profondamente tuo. Quella è la sensazione che io ricerco ogni giorno della mia vita e non la baratterei per niente al mondo. Penso a quel pomeriggio a Sassari, in cui ho preso la chitarra in mano e ho trovato la diteggiatura per i primi due accordi di Carme. O quando, come per magia, la sequenza armonica ciclica asimmetrica della coda di A te sola mi è parsa improvvisamente compiuta, e quella battuta di due quarti era diventata parte fondante dell’inspiegabile quadratura del tutto. In quei momenti, la sensazione è simile a un qualcosa che ti solleva da terra.
Spira ti ha sollevata dal terreno sardo fino a New York. Ma rimane un disco che trasuda Mediterraneo. Profuma elicriso, e ti lascia la salsedine nelle orecchie quando lo ascolti. Quanta Sardegna c’è in Spira?
La Sardegna c’è perchè è casa mia e ci sono le mie radici. Spira non lo definirei però esattamente un disco sardo. Trasuda provenienza, ma senza aver utilizzato nessuno strumento tradizionale, armonia o lingua propriamente sarda. Io e Jacopo non abbiamo utilizzato alcun elemento tradizionale specifico della Sardegna con l’intenzione che fosse riconducibile alla Sardegna in senso tradizionale.
Un linguaggio inventato, frutto di un lavoro di ricerca e artigianato fonetico, partendo dalle poesie di Don Gavino Pes. Daniela, talentuosissima cantante jazz, tra tutte le cose che poteva fare a un certo punto sceglie consapevolmente di mettersi a musicare le lamentele amorose di un prete del ’700.
Di grazia, perché?
Fino ai 25 anni ero totalmente all’interno dell’ambiente jazz. Il Conservatorio. Le lezioni di Giovanni Agostino Frassetto. I seminari di Nuoro Jazz con Paolo Fresu, Stefano Bagnoli, Tino Tracanna, Maria Pia De Vito, Marco Tamburini. Il Rio Harp Festival. Poi, sette anni fa ho capito che non volevo fare la cantante jazz nella vita. Ero consapevole che dovevo portarmi dietro la libertà d’espressione, l’improvvisazione, la ricerca di un mio timbro vocale. Ma sapevo anche che non era il mio unico mezzo comunicativo. Mi mancava qualcosa, e dovevo indagare quel qualcosa. Decido quindi di partecipare al premio Andrea Parodi. Festival di world music, un concetto-ombrello ampissimo, che racchiude anche i dialetti. Gianluca Dessì, meraviglioso chitarrista dei Cordas et Cannas, mi regala quel libro.
Indica il libro che mi sono portato, Tutti li canzoni di Don Gavino Pes, il Catullo gallurese, compaesano di Daniela di Tempio Pausania, dai cui versi ha origine l’universo semantico di Spira.
E mi dice «Dani, stai cercando testi tradizionali? Ti regalo questo libro, scritto da un tuo compaesano, Don Gavino Pes, che porta il tuo cognome». Ho iniziato a leggere. Raccontava Tempio, il mio paese. Percepivo tutta la familiarità di quelle parole. Le faide, i luoghi, quel modo nostalgico di amare. In quei versi ho riconosciuto una musicalità che poteva aiutarmi tantissimo nella mia espressione. Volevo partire da lì per creare qualcosa di veramente mio. Ho iniziato a mettere mano ai fonemi. Ho tenuto quelli che mi piacevano, rimuovendo totalmente ciò che non mi suonava. Senza chiedermi il perché. Senza pensare al senso. Senza regole. Basandomi solo sulla ricerca del bello e della completezza musicale. Parole decostruite, sillabe, radici, fonemi che utilizzavo nell’improvvisazione jazz. Quelli mi bastavano, mi riempivano, mi quadravano. È stata un’intuizione, e dovevo percorrerla. L’ho fatto naturalmente, e alla fine è stata davvero la sintesi pura della mia vita. Il jazz, la ricerca del mio timbro, del mio suono, e il mio linguaggio: vocaboli destrutturati, radici di gallurese, qualche parola in italiano, segmenti brevissimi ma molto pieni. Parole, lune, maree, illumina, onde. L’utilizzo di questa lingua è stata una scoperta luminosa. Mi ha concesso di esprimermi musicalmente come volevo, finalmente svincolandomi dal testo.
Foto: Piera Masala
Massimo Silverio, Alfio Antico, Mombao, Mai Mai Mai: in Italia sembra emergere un’area artistica che fonde linguaggi asemici, la memoria sonora mediterranea e una fisicità elettronica legata al corpo e al rito. Credi che in Italia ci sia spazio per continuare a sviluppare questo tipo di ricerca? Esiste un movimento?
Penso che finalmente lo spazio ci sia, e sarebbe stupendo se questo spazio venisse abitato sempre di più. Ma ancora non vedo una scena concreta, radicata.
Uno spazio che forse stenta a riempirsi anche per una mancanza di propensione al rischio? Non credi ci sia una tendenza, in Italia, a sottovalutare l’ascoltatore? Quasi che si rinunci a un certo livello di sperimentazione, di istinto, per tutelare il pubblico?
Certo, così facendo non si tutela il pubblico, ma si sottovaluta. Se al pubblico non viene data l’opportunità di ascoltare cose diverse dal solito, come fa ad apprezzare o meno cose nuove? Penso poi che un musicista che ha l’esigenza di fare musica la deve fare per sé stesso, non pensando al tipo di riscontro che avrà. Questa mi pare sia una premessa sana per tutti. Etichette come Trovarobato e Tanca Records (l’etichetta con la quale ha pubblicato Spira, nda) sono nate con l’intento di offrire spazi e opportunità per chi cerca un luogo dove potersi esprimere liberamente e respirare aria pulita.
È questa sottovalutazione delle orecchie delle persone il limite principale della scena italiana?
Sicuramente esiste questa sottovalutazione, e non fa bene a nessuno. Guardando poi la scena italiana più da lontano credo che un anello debole di oggi sia proprio l’utilizzo della lingua italiana.
Sono spiazzato. Ma Daniela è così: tranchant.
Vedo l’italiano inteso, impiegato, elaborato ed espresso in una maniera molto povera, e questo utilizzo finisce per mortificare anche la bellezza musicale che esiste nella scrittura di tanti artisti. Una delle eccezioni di oggi è sicuramente Lucio Corsi: vedo nei suoi testi una profondità e una cura diversa.
C’è sempre spazio sul carro di Lucio Corsi nel 2025. Ma da come ne parla, è chiaro che – almeno lei – ci sia già salita da tempo.
Ti definisci un’artista politica?
La politica non è nei miei pensieri quando scrivo musica. Mi sento una musicista nel senso più stretto del termine e basta. Il mio atto politico è conseguente al tipo di rapporto che ho con la musica.
La tua partecipazione alla sfilata di Etro. Perché questo sodalizio? Cosa c’entra il tuo modo di vivere la musica con la Fashion Week e la Milano da bere? Ho visto quel video, sembravi Katniss Everdeen alla sfilata inaugurale degli Hunger Games. Mi ha indispettito. È bastato così poco per farmi crollare come musicista? Mi dispiace, ma ti rispondo. Marco De Vincenzo (direttore creativo di Etro, nda), che non conoscevo affatto, mi ha chiamata. Mi ha raccontato del suo amore per Spira, e di quanto l’avesse influenzato durante i disegni della nuova collezione. Mi ha chiesto se avessi voglia di metterla in scena assieme a lui, costruendo qualcosa da zero. In una maniera totalmente rispettosa, dandomi la possibilità di esistere nella mia pienezza. Ho avuto completa libertà: carta bianca per una performance totale. Il fine, cioè il mondo della moda, mi è sempre stato molto distante, per quanto l’estetica faccia assolutamente parte della mia espressione artistica. Alessandra Mura è la coreografa/creativa con cui dialogo costantemente per quanto riguarda il mio esistere sul palco, vestiti inclusi. È stata un’esperienza che mi ha dato tantissimo a livello di disciplina e di professionalità. Emotivamente molto forte, assolutamente soddisfacente. La rivendico e la difendo.
Mi ha convinto, e leggermente imbarazzato. Cambio discorso.
Mi è capitato di vederti suonare due volte in una settimana. Mi ammonirono: «Basta. La consumi!». Io non sono mai stato veramente in grado di smettere di venire ai tuoi live, ma tu non sembri in grado di terminarlo questo tour. Stesse sette tracce da quasi due anni. Ti è mai venuto il dubbio di starla “consumando” questa scaletta? Quando si arriva al punto di saturazione di un tour?
Nella musica che ho scritto ci credo talmente tanto che l’ho sempre goduta. Lo scheletro del live è rimasto lo stesso, ma ogni concerto è sempre stato diverso. Ho portato Spira ovunque, e ogni volta c’era un’energia differente, unica. Quando abbiamo iniziato il club tour in trio ho provato una grande difficoltà a tenere la stessa intensità che avevo costruito durante il tour estivo. I festival all’aperto sono molto più dispersivi e c’è molta distanza tra te ed il pubblico. Nei club avevo la gente attaccata al mio set, gli occhi delle persone erano sopra le mie mani. Una dimensione totalizzante, inglobante, quasi intrusiva. Dopo qualche concerto però mi è piaciuta da matti, e volevo solo suonare nei club. Volevo quell’aria densa, colma, tra me e le persone.
Foto: Piera Masala
Cosa succede adesso? Il salto dell’Atlantico. New Colossus Festival a New York e SXSW ad Austin: cosa ti aspetti?
Mi aspetto di divertirmi tantissimo e di conoscere persone musicalmente interessanti. Di vedere dei concerti che mi riempiano, di prendere contatti e di creare un ponte. Poi ho voglia di abitare in posti nuovi, distanti tra loro. Vivere scossoni dinamici attorno a me che riescano a smuovermi e a tenermi in vita. Ma ora mi voglio godere le prossime date, che so essere la coda ultima di Spira. Austin, New York, Parigi, Londra, Vienna.
Si chiude veramente il sipario?
In realtà non ti saprei dare una risposta definitiva. Da un lato ho bisogno di proiettarmi su un nuovo lavoro, di capire quale sarà il mio prossimo blocco musicale, dall’altro se arrivassero nuove proposte live interessanti faticherei a dire di no.
Ho cercato in tutti i modi di fare diventare Daniela un’icona. Un’icona della scena indipendente, delle lingue morenti, della musica tradizionale, della Sardegna, della moda, dell’anti-moda, della politica. Ho inevitabilmente fallito: Daniela Pes è icona solo di sé stessa. Per me però rimane anche una delle poche sostanze stupefacenti ancora tollerate in questo Paese. E che a nessuno venga in mente di segnalare al Ministro delle Alte Teste (e delle Infrastrutture) gli effetti di dipendenza che Daniela Pes può causare. Quando rientro a casa la notte, e intravedo le luci dei vigilantes alla fine della statale, voglio poter continuare ad alzare il volume e cantare stonato Spira (il vento e infuria la bufera) senza il timore di vedermi ritirata la patente.
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