VENEZIA – «Come direttore generale non avevo responsabilità operative, io curavo la strategia di aggregazione della banca, le fusioni con Veneto Banca, l’Etruria, Cassa Ferrara, poi non andate in porto per volontà del presidente Gianni Zonin che non accettava altri consiglieri nel cda di Popolare Vicenza. Ho assecondato il mio presidente e mi sono fidato dei miei collaboratori. E sono stato l’unico ad abbassare il valore dell’azione. Il mio grande errore è essermi dimesso da BpVi nel maggio del 2015: avrei avuto modo di interloquire con la Banca d’Italia e invece sono state scaricate su di me tutte le responsabilità» del crac di Vicenza. «E questa situazione di pressione probabilmente ha provocato la malattia oncologica che mi ha portato a non poter seguire le udienze del processo a mio carico». E i crac delle Popolari del 2017? «Voluti a tavolino».
MALATTIA PESANTE
Samuele Sorato, l’ex direttore generale e consigliere delegato per pochi mesi di Popolare Vicenza, per la prima volta parla in aula dopo la condanna in primo grado a 7 anni di reclusione e alla confisca di 963 milioni (l’ammontare delle baciate individuate dalla Procura di Vicenza) annullata dalla Consulta, riconosciuto responsabile dei reati di aggiotaggio, falso in prospetto e ostacolo agli organismi di vigilanza. Considerato che diversi capi di imputazione sono nel frattempo andati in prescrizione, il procuratore generale della Corte d’Appello di Venezia ha chiesto che Sorato venga condannato a 5 anni e otto mesi. Ieri si è tenuta l’arringa dell’avvocato difensore Alberto Berardi, che per circa cinque ore ha ripercorso le risultanze e le testimonianze del processo a Vicenza cercando di smontare tutte le accuse riproposte anche in Appello, in primo luogo puntando il dito contro la decisione del collegio di avere assunto «la decisione di dichiarare l’assenza di Sorato in aula nonostante la perizia avesse accertato la piena sussistenza del suo legittimo impedimento» per gravi problemi salute. Una malattia pesante, che ha portato a diversi interventi chirurgici (gli ultimi a fine 2024) e a un «Golgota terapeutico», come l’ha definito Berardi, che ha impedito all’ex direttore generale di BpVi di poter partecipare attivamente – secondo il difensore – ai processi. Berardi ha contestato duramente anche il controllo dei carabinieri effettuato in ospedale nel corso una seduta di cure di radioterapia di anni fa. Una difesa a tutto campo giocata su due piani: la contestazione a quell’accusa di “slealtà” al processo per una malattia che secondo i pm vicentini era meno grave di quanto enunciato. E nella tecnicalità finanziaria prima analizzando i reali poteri operativi dell’ex direttore generale, poi illustrando come ancora oggi non vi siano criteri definiti e oggettivi per individuare le baciate, operazioni di finanziamento per l’acquisto delle azioni di cui si era parlato addirittura nell’ispezione della Banca d’Italia del 2012, quando uno dei manager di BpVi consegnò all’ispettore Gennaro Sansone la lista dei primi trenta azionisti della banca veneta, la gran parte finanziati con centinaia di milioni. Come mai non scattò l’allarme allora? È uno dei misteri non ancora risolti di questo crac che ha portato alla liquidazione coatta amministrativa di una delle prime 10 banche italiane con 5 miliardi di patrimonio di risparmi e circa 120mila soci finita poi per 50 centesimi a Intesa Sanpaolo (le parti “buone).
GRANDI AZIONISTI
«Ancora oggi non c’è una norma che stabilisca cosa e quali sono le operazioni baciate – ricorda Sorato ai margini dell’udienza -. L’ispezione della Bce del 2015, molto selettiva, ha individuato 300 milioni di baciate, il miliardo a cui si è arrivati dopo è fantasia. E per 300 milioni una banca come la Popolare di Vicenza non fallisce». Ma Zonin sapeva delle baciate? «Tutti sapevano delle baciate. L’ex vicedirettore generale Emanuele Giustini, ha dichiarato nell’altro processo su BpVi che senza Zonin in banca non si muoveva foglia. E i bilanci venivano firmati da lui e da Massimiliano Pellegrini». Entrambi condannati in secondo grado nel processo gemello arrivato in Cassazione. «Tutti gli ispettori della Banca d’Italia non hanno mai sollevato problemi mentre la banca per ordine di Zonin continuava a comprare istituti, a dare credito, ad aprire sportelli: voleva arrivare a mille. Poi c’è stato il “consiglio” dell’istituto di Vigilanza di fondersi con Veneto Banca, altrimenti la Bce ci avrebbe massacrato. Operazione che ho curato personalmente, fallita perché Zonin non voleva che fosse alla pari e dare spazio in cda a consiglieri di VB. E sono arrivate le ispezioni in contemporanea di Vigilanza e Consob, cosa mai successa, la legge Renzi sull’obbligo del passaggio in spa. C’era un disegno per quello che è successo. La distruzione delle due banche sembrava voluta a tavolino, Bari invece è stata salvata. E qui mi fermo». L’ex Dg dimagrito ma sempre elegante riflette amaro: «La verità è che la classe politica ha grandi responsabilità nella fine delle due Popolari e che il Veneto oggi non ha una grande banca. Se Zonin e Consoli avessero ubbidito alla Banca d’Italia non saremmo qua». In aula invece c’è Sorato che il 12 marzo conoscerà l’esito del suo processo d’appello.
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