Illeciti dei magistrati, un motivo per assolvere si trova (quasi) sempre

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La scorsa settimana il Corriere della Sera ha ospitato un intervento di Edmondo Bruti Liberati in cui la gestione disciplinare del Csm era descritta come “rigorosa”. La questione ha particolare valenza, a poche ore dall’incontro fra governo e Anm, considerato come nel ddl sulla separazione delle carriere sia prevista anche l’istituzione di un’Alta Corte che diverrebbe competente per i procedimenti disciplinari a carico di tutti i magistrati ordinari. Una soluzione criticata, come il resto della riforma, dall’associazionismo giudiziario.

A fronte di tali perplessità, ci permettiamo di consigliare la lettura del massimario delle decisioni della sezione disciplinare del Csm e del sito web della Procura generale della Cassazione, dove sono raccolte le massime attinenti all’uso dei poteri che il capo di tale ufficio ha in materia disciplinare.
La lettura incrociata di queste fonti consolida alcune impressioni.
La prima riguarda la cornice normativa: l’ordinamento disciplinare dei magistrati ha un’intonazione robustamente protezionistica, nel senso di essere congegnato, sia nella tipizzazione degli illeciti sia per la clausola generale dell’esenzione dagli addebiti per scarsa rilevanza del fatto, in modo da confinare l’area di ciò che è disciplinarmente rilevante entro spazi ristretti.
La seconda riguarda l’interpretazione di quella cornice, cui concorrono con pari importanza sia la sezione disciplinare che la Procura generale: pare, cioè, che entrambe facciano largo uso della discrezionalità insita nelle previsioni normative, attraverso un’altrettanto larga valorizzazione della scarsa rilevanza e l’adozione di parametri di minimizzazione del fatto.

Seguono alcuni esempi (tutti recentissimi) che, almeno nell’opinione di chi scrive, sono in grado di giustificare le impressioni di cui sopra.

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Sentenza n. 40/2024. “In tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, integra l’illecito nell’esercizio delle funzioni dell’ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altro magistrato, la condotta del magistrato di sorveglianza che invia al pm titolare del procedimento a carico di sua moglie una mail contenente una ricostruzione giuridica del fatto, dandone una propria interpretazione, tesa a ritenere il reato non configurabile. Tale condotta può tuttavia reputarsi priva di sostanziale offensività, tenuto conto delle modalità in cui si è estrinsecata, nonché del carattere meramente occasionale dell’episodio e dell’assenza di clamore in ordine al caso, trovando pertanto applicazione l’art. 3-bis del d.lgs. 109 del 2006”.

Qui per esempio si riconosce da un lato che l’incolpato ha interferito in modo ingiustificato nell’attività di un altro magistrato, e per ciò stesso si attesta la materialità dell’illecito, ma dall’altro se ne banalizza la portata in virtù di parametri eccentrici che – se ne può star certi – sarebbero considerati risibili in un giudizio penale: l’occasionalità dell’episodio, come se la gravità potesse essere ricavata solo dalla serialità di condotte analoghe, e l’assenza di clamore, quasi a premiare la segretezza che, a quanto pare, deve avere circondato il fatto.

Sentenza n. 99/2024. “In tema di illecito disciplinare dei magistrati, l’omessa scarcerazione dell’imputato per oltre sei mesi dalla data di perdita di efficacia della misura integra certamente, trattandosi di disciplina a tutela del bene della libertà personale, la violazione di legge derivante da errore o negligenza inescusabile. Nella specie la Sezione disciplinare ha ritenuto di applicare l’esimente di cui all’art. 3 bis tenuto conto di una serie di elementi, tra cui la mancata richiesta di revoca della misura cautelare da parte del difensore dell’imputato e la figura professionale dell’incolpato”.

C’è dunque la rilevanza disciplinare del fatto, e il fatto è un imputato rimasto in carcere sei mesi oltre la data di perdita di efficacia della misura cautelare. Eppure, anche in questo caso, quella rilevanza scolora fino a scomparire perché – si badi bene – il difensore dell’interessato non ha chiesto la revoca della misura e l’incolpato ha una certa, non meglio precisata, figura professionale. La colpa del magistrato viene traslata sul difensore rimasto inerte, e in tal modo si banalizza o addirittura si nega il dovere, in capo al magistrato, di vigilanza sulle misure in corso. Rimangono sullo sfondo, alla stregua di un fastidioso inconveniente, i sei mesi di vita sottratti allo sventurato cui è toccato in sorte una così eminente figura professionale.

Sentenza n. 122/2024. “L’illecito di cui all’art. 2 comma 1 lett. g) d.lgs. 109 del 2006 richiede per la sua configurazione che la violazione di legge sia grave e determinata da ignoranza o negligenza inescusabile. La gravità, oltre ad avere una rilevanza in termini deontologici, deve essere rapportata anche alla rilevanza dell’errore nell’approccio giurisdizionale e al ‘peso’ che la violazione ha avuto nella vicenda giudiziaria nella quale è stata commessa. Nel caso di errore che ha determinato la mancata scarcerazione esso è da ritenersi grave perché incide su un diritto fondamentale della persona umana, garantito sia a livello costituzionale sia sovranazionale. Nella specie il fatto è stato ritenuto di scarsa rilevanza per mancata compromissione dell’immagine del magistrato nella sua funzione giudiziaria”.

Questo caso è analogo a quello immediatamente precedente. L’unica differenza è che nell’occasione si valorizza come esimente la mancata compromissione dell’immagine del magistrato. È una giustificazione insieme sconcertante e arrogante perché il suo presupposto giustificativo è parametrato all’interno del ristretto ambito giudiziario. Ben diverso sarebbe stato l’esito – si crede – se si fosse chiesta l’opinione di chi è rimasto in cella più del giusto.

(1 – continua)



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