In queste settimane, nelle notizie di politica economica internazionale, si parla spesso dei dazi Usa sull’export, ossia di imposte indirette che andrebbero a colpire la circolazione delle merci da un Paese a un altro e che, in sostanza, costituirebbero un costo gravante sulle aziende che mirano a vendere i loro prodotti all’estero. Sono tornati un tema caldo dopo la seconda elezione di Donald Trump, che ha subito espresso l’intenzione di imporre le tariffe aumentate anche agli Stati membri dell’Ue.
Proprio su questi temi è fresca un’indagine della Cgia di Mestre, associazione ben nota per le sue attività di ricerca e analisi economica, con specifica attenzione alle Pmi, al lavoro autonomo e all’economia locale e nazionale. La Cgia ha pubblicato uno studio secondo cui a maggior rischio di ripercussioni economiche sarebbe, in Italia, l’export del Sud.
Scopriamo insieme quali sono i motivi, ma proviamo anche a suggerire possibili contromosse per proteggere produzione e lavoro di una vasta e delicata area della penisola.
L’indagine della Cgia Mestre sull’export delle regioni del Sud
I dazi sono applicati per vari motivi:
- tutelare l’economia interna;
- assicurare l’approvvigionamento di beni essenziali;
- incrementare le entrate nazionali.
Possono però generare tensioni commerciali tra i Paesi e influenzare i prezzi dei prodotti sul mercato globale. L’Ufficio Studi della Cgia Mestre segnala che la politica economica dei dazi potrebbe colpire, soprattutto, i prodotti esportati dal Meridione perché quasi tutte le regioni di quest’area della Penisola sono caratterizzate da una scarsa varietà delle merci vendute nei mercati esteri.
Nel Sud la produzione si concentra, infatti, su alcune attività agricole, industriali e manifatturiere, spesso legate a settori tradizionali e ciò potrebbe rendere il Sud più vulnerabile alle politiche di Donald Trump, con limitazioni all’export e ricadute in termini di Pil e crescita economica complessiva dell’Italia.
Non solo. A ben vedere, in questo scenario, l’impossibilità di diversificare velocemente l’export o di compensare le perdite con altri mercati potrebbe avere effetti negativi sul reddito e sull’occupazione nel Mezzogiorno, che già non sono particolarmente floridi. Ricordiamo che l’export italiano oggi vale circa il 40% del nostro Pil e che l’esportazione di merci dall’Italia agli Usa vale l’ingente cifra di 66 miliardi di euro.
Il valore dell’indice di diversificazione di prodotto
Grazie a un’elaborazione condotta sulla base di dati Istat, l’analisi si rivela interessante perché misura, numericamente, l’indice di diversificazione di prodotto dell’export per regione, fornendo un quadro chiaro e aderente alla realtà. Questo indice pesa il valore economico delle esportazioni dei primi dieci gruppi merceologici sul totale dell’export regionalee:
- tanto più risulta elevato il rapporto tra l’export dei primi dieci gruppi di prodotto e l’export complessivo (indice di diversificazione), tanto meno l’export regionale sarà diversificato, risultando così più esposto alle congiunture del commercio internazionale;
- tanto più basso è l’indice, tanto più l’export regionale sarà diversificato, risultando così meno sensibile a “terremoti” nel commercio internazionale.
Oggi le due regioni che presentano il miglior indice di diversificazione di prodotto sono la Lombardia e il Veneto, mentre ad avere i peggiori indici di diversificazione sono, nell’ordine:
- Sardegna;
- Molise;
- Sicilia;
- Valle d’Aosta (sola eccezione tra le regioni settentrionali);
- Basilicata;
- Calabria;
- Campania.
Si tratta di regioni tutte con valori superiori al 70%.
L’associazione evidenzia che in Sardegna e Sicilia domina l’export dei prodotti derivanti della raffinazione del petrolio, mentre nel Molise ha un peso particolarmente elevato la vendita dei prodotti chimici/materie plastiche e gomma, autoveicoli e prodotti da forno. Nel Sud Italia colpito dai dazi solo la Puglia si “salva”, presentando un livello di diversificazione elevato.
Le possibili contromisure ai dazi americani
Le regioni del Sud Italia già affrontano le delicate sfide strutturali nel commercio internazionale, insieme a un’agguerrita concorrenza: ecco perché sarebbe auspicabile l’adozione di alcune contromosse, per frenare gli effetti negativi dei dazi:
- nuove relazioni commerciali e accordi bilaterali;
- incentivi fiscali e crediti d’imposta;
- fondi di emergenza e di finanziamento per la diversificazione dell’export;
- promozione dei prodotti del Made in Italy e di negoziati strategici.
A ben vedere, a livello nazionale sarebbe opportuno rafforzare le relazioni commerciali con l’Unione Europea, i Paesi Brics e altre economie emergenti, promuovendo accordi bilaterali con Stati che possono compensare la perdita di quote di mercato negli Usa. È la strada tracciata dal piano italiano anti dazi presentato di recente da Antonio Tajani.
Al contempo, come sostegno alle imprese esportatrici, la previsione normativa di specifici incentivi fiscali, atti a favorire innovazione e competitività sui mercati globali, costituirebbe una sorta di paracadute. Si pensi a possibili crediti d’imposta per ricerca e sviluppo o per le spese legate all’internazionalizzazione o, ancora, ad agevolazioni fiscali per le aziende che investono in transizione green o tecnologie innovative, come AI, robotica o Internet delle cose.
Non solo. Anche la creazione di fondi di emergenza ad hoc, aventi lo scopo di supportare le aziende del Sud penalizzate dai dazi, potrebbero essere un’efficace compensazione delle ultime novità. Un fondo di sostegno alle imprese esportatrici sosterrebbe i datori di lavoro e l’occupazione contro le perdite economiche dovute al calo delle esportazioni verso i mercati soggetti a dazi.
Le imprese meridionali che esportano beni dei settori dell’agroalimentare, della moda o delle tecnologie potrebbero fare richiesta alle autorità nazionali per un finanziamento a tasso agevolato o per un contributo a fondo perduto, atti a coprire gli effetti negativi delle nuove politiche economiche. Sul piano delle regole di funzionamento, l’accesso al fondo potrebbe essere riservato alle imprese che provano una notevole perdita di fatturato a causa dei dazi, come una riduzione tra il 10% e il 20% delle vendite verso il mercato Usa.
Analogamente, un altro valido rimedio potrebbero essere i fondi di finanziamento specifici per stimolare la diversificazione geografica delle esportazioni, magari verso i Paesi asiatici o africani, e ridurre la dipendenza da mercati come quello statunitense.
Non solo. Il rafforzamento delle campagne di promozione internazionale del Made in Italy, la promozione di negoziati con gli Usa per ottenere deroghe o condizioni più favorevoli per alcuni settori merceologici, come pure la scelta di lavorare alacremente, a livello europeo, per contestare i dazi presso l’Omc, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, costituiscono altri possibili contromosse ai dazi.
Concludendo, queste iniziative, insieme alla possibile creazione di partenariati e consorzi tra agricoltura e industria, come pure di hub produttivi integrati, parchi industriali e agri-business, anche grazie alla collaborazione delle istituzioni territoriali, rappresenterebbero un approccio combinato tra strategia nazionale e interventi mirati a livello locale, tale da ridurre l’impatto negativo della guerra commerciale e rendere le imprese del Sud più resilienti nel lungo periodo.
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