Banche, ecco perché le fusioni possono rallentare il credito e quanto può durare il fenomeno




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Mentre il risiko bancario sta entrando nel vivo, l’impatto delle fusioni sul credito è finito al centro del dibattito. Il punto di vista dei predatori è che il consolidamento genererà efficienze ed economie di scala e aiuterà così gli istituti a servire meglio l’economia del Paese. Le prede invece sostengono la tesi opposta: riducendo il numero degli intermediari ed eliminando le banche di territorio, le operazioni avranno un effetto restrittivo sull’offerta di credito, mettendo in difficoltà soprattutto il tessuto delle piccole e medie imprese.

Cosa dicono i numeri?

Una ricerca pubblicata da Banca d’Italia mostra che storicamente le aggregazioni hanno favorito l’efficienza operativa con la razionalizzazione delle strutture e le sinergie di costo conseguite attraverso una maggiore scala dimensionale. Questi risultati positivi però non sempre si trasmettono subito alla clientela, soprattutto a causa dei vincoli operativi e degli oneri che caratterizzano il processo di integrazione.

L’analisi di Bankitalia

«Le operazioni di consolidamento bancario – spiega il documento – possono generare nel breve-medio periodo una temporanea riduzione del credito concesso alle imprese. Questo fenomeno deriva dalle riorganizzazioni successive al deal, legate essenzialmente alla crescita della banca o a strategie di riduzione del rischio. Inoltre, l’attuazione di politiche di diversificazione e riallocazione del credito può variare tra i diversi clienti, portando a una riduzione più marcata per specifiche imprese, settori e aree geografiche, con un conseguente razionamento selettivo del credito per clienti più piccoli e rischiosi», spiega Bankitalia.

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In base ai risultati dell’indagine, nei tre anni dopo l’integrazione i prestiti alle imprese diminuiscono in media di circa il 2%, con un effetto leggermente più marcato durante i periodi di ripresa economica, quando molti di questi deal hanno avuto luogo.

Le ultime operazioni

Questa tesi trova conferma nei bilanci, se si esaminano le quattro maggiori aggregazioni avvenute nel sistema bancario italiano dal 2017 a oggi, cioè Banco Popolare – Popolare di Milano (2017); Intesa Sanpaolo-Ubi Banca (2021); Crédit Agricole – Credito Valtellinese (2022) e Bper-Carige (2022). Da un esame aggregato emerge che nell’anno di integrazione e in quello successivo i crediti della nuova combined entity calano rispetto allo stock che le due banche registravano l’anno precedente. Questa flessione si manifesta sia quando gli impieghi del settore bancario nel complesso sono in crescita, come nel periodo 2017-2022, sia quando il mercato è già in contrazione come nel 2023 e, in questo secondo caso, si presenta in modo più marcato.

Questo fenomeno, comunque di impatto contenuto e limitato nel tempo, deriva da una serie di concause. Una prima spiegazione viene dagli impatti legati alla chiusura o alla cessione degli sportelli e all’uscita del personale commerciale, oltre che alle ricadute derivanti da migrazioni e sostituzioni dei sistemi informativi.

Gli effetti sulle imprese

Un’altra causa va ricercata negli aspetti di carattere tecnico-creditizio, legati per esempio al superamento di plafond su alcuni specifici clienti o alla ridefinizione dei limiti di concentrazione verso determinati settori o aree geografiche. Questi fenomeni sono abbastanza comuni nel mercato italiano dove è diffuso il ricorso a una molteplicità di fidi, il ben noto pluriaffidamento.

Pmi con un fatturato inferiore ai cinque milioni di euro possono avere una decina di banche creditrici o anche più. Ovviamente le aziende più piccole tendono a indebitarsi con gli istituti geograficamente più vicini, ai quali sono legate da consolidati rapporti fiduciari. Nell’ambito di una complessiva revisione delle reti commerciali, una fusione in genere impone politiche di contenimento del rischio con il conseguente ridimensionamento delle linee di credito concesse. Con quali effetti? Se l’azienda cliente non riuscirà a ottenere nuove linee di credito, si vedrà costretta a bussare a nuovi istituti, con esiti incerti in un periodo in cui i cordoni della borsa restano stretti.

Da ultimo le fusioni possono produrre effetti di riallineamento delle politiche del credito o commerciali che potrebbero risultare più restrittive verso alcune tipologie di controparti, in particolare se l’integrazione avviene tra soggetti molto diversi da un punto di vista dimensionale o di modello di business.

Quest’ultimo aspetto, anche se non omogeneo nelle diverse operazioni e variabile in base ai segmenti di clientela, trova alcuni riscontri anche nella dinamica del credito registrata nel triennio 2021-2023. Tale dinamica non è uniforme tra i diversi cluster dimensionali delle banche e vede gli istituti medi e piccoli con tassi di crescita dei crediti superiori rispetto alle banche grandi che risultano invece in calo (rispettivamente +5,7% rispetto al – 2,4% nello stesso periodo).

Questo dato riflette una maggiore focalizzazione delle banche medie e piccole sull’attività di finanziamento tradizionale (con un peso delle esposizioni creditizie sul totale dell’attivo prossima o superiore al 70%) rispetto ai grandi gruppi, impegnati anche su altri ambiti di attività (con un peso invece del totale delle esposizioni creditizie sul totale dell’attivo pari a circa il 60%). (riproduzione riservata)

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