La disciplina delle società di comodo e il diritto della detrazione dell’Iva


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7137/2025, si è pronunciata sulla rilevanza della disciplina delle società di comodo in ordine alla detrazione dell’Iva. Nel rappresentare il relativo principio di diritto non ha potuto eludere le sovrastanti coordinate interpretative della Corte di Giustizia Europea.

Come noto, in ordine all’Iva, alla presunzione di inoperatività consegue, per effetto dell’articolo 30, comma 4, L. 724/1994, che il soggetto passivo resta privato del diritto di chiedere il rimborso dell’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione, ovvero di utilizzare tale eccedenza in compensazione orizzontale o di cederla a terzi, residuando unicamente il diritto di riportarla a scomputo dell’Iva a debito relativa ai periodi di imposta successivi. In base alla medesima disposizione, il diritto a riportare tale eccedenza a scomputo dell’Iva a debito relativa ai periodi di imposta successivi è, tuttavia, negato qualora per tre periodi di imposta consecutivi la società o l’ente non operativo non effettui operazioni rilevanti ai fini dell’Iva non inferiore all’importo che risulta dall’applicazione delle percentuali previste per il test di operatività.

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In ordine a tale preclusione, corre l’obbligo di considerare come la condizione di non operatività del soggetto non possa ostruire il diritto di detrazione e di rimborso dell’iva. In particolare, il principio di detrazione che se si riverbera nel diritto di riporto a nuovo o di rimborso del credito iva, non può essere sovrastato dalla inoperatività del soggetto (Corte di giustizia UE , sentenza 29 febbraio 1996, C-110/94 “Inzo”, ove viene chiarito che salvo nei casi di situazioni fraudolente o abusive, la qualità di soggetto passivo Iva non può essere revocata con effetto retroattivo, qualora in considerazione dei risultati delle indagini di mercato svolte preliminarmente non si decida di passare alla fase operativa e di mettere in liquidazione alla società, di modo che l’attività economica prevista non viene a generare operazioni imponibili ai fini Iva). Ancora, sempre per il giudice europeo (sentenza 15 gennaio 1998, causa C-37/95 “Ghent Coal Terminal”), la prospettiva del ribaltamento a valle a mezzo le operazioni imponibili, quale elemento giustificativo della detrazione Iva a monte, non dev’essere intesa come presupposto indefettibile del diritto del riporto a nuovo o del rimborso dell’eccedenza dell’Iva, in quanto per la Corte UE (testualmente): “Il diritto alla detrazione rimane acquisito qualora, a causa di circostanze estranee alla sua volontà, il soggetto agente non abbia mai fatto uso dei suddetti beni e servizi (sui quali ha operato il diritto della detrazione iva) per realizzare operazioni imponibili”.

Ancora più illuminante fu il caso spagnolo deciso dalla Corte di giustizia UE con la sentenza 21 marzo 2000 (cause riunite C-110/98 e C-147/98, causa nota come “caso Gabalfrisa”).

Il caso sottoposto ai giudici comunitari (e risolto con la sentenza citata) ha riguardato la legittimità della norma spagnola che impediva il riconoscimento del diritto della detrazione in assenza dell’esecuzione di operazioni imponibili da parte del soggetto passivo Iva. Più in dettaglio, la norma spagnola (articolo 37, L. 37/1992, istitutiva del sistema Iva spagnolo) subordinava l’esercizio del diritto della detrazione al soddisfacimento di particolari condizioni e, in particolare, all’inizio dello svolgimento abituale delle operazioni imponibili entro un dato termine. Dichiarando la incompatibilità della norma con i sistema Iva comunitario i Giudici UE hanno osservato: “Occorre anzitutto osservare che, secondo una costante giurisprudenza, il diritto della detrazione previsto dagli artt. 17 e seguenti della sesta direttiva costituisce parte integrante del meccanismo dell’iva e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni … l’art. 17, osta quindi ad una normativa nazionale che subordina l’esercizio della detrazione iva pagata da un soggetto iva prima dell’inizio dello svolgimento abituale delle operazioni imponibili a talune condizioni e che sanziona il mancato rispetto di tali condizioni con la perdita del diritto alla detrazione …”.

Ancora più di recente, la Corte di Giustizia UE, Sez. III, 07/03/2024, n. 341/2022 ha avuto modo di rappresentare:

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  1. l’articolo 9, § 1, Direttiva 2006/112/CE, deve essere interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo Iva al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini dell’Iva il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, corrispondente ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone, posto che per determinare la qualità di soggetto passivo rileva “esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un’attività economica e … sfrutti un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità“. Nessuna disposizione della Direttiva Iva subordina il diritto della detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’Iva, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia e, anzi, al contrario, il diritto alla detrazione dell’Iva è garantito, indipendentemente dai risultati delle attività economiche del soggetto passivo interessato, fatta salva l’ipotesi in cui ricorra una frode o un abuso del diritto.
  2. l’articolo 167, Direttiva 2006/112/CE, in unione con i principi di neutralità dell’Iva e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale in forza della quale il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’Iva assolta a monte, a causa dell’importo, considerato insufficiente, delle operazioni rilevanti ai fini dell’Iva effettuate da tale soggetto passivo a valle.

Alla luce di quanto sopra rappresentato, come peraltro anche evidenziato dalla Corte di Cassazione (n. 22249/2024), l’articolo 30, L. 724/1994, assolve alla funzione di disincentivare le evasioni. Tuttavia, tale presunzione, si fonda su un criterio, quello di una soglia di ricavi, che è estraneo a quelli raccordabili alla dimostrazione di un’evasione o di un abuso, poiché prescinde da una valutazione della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini Iva ed è ancorata solo al parametro della “valutazione del volume” degli affari (§ 39), per cui essa eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenire le evasioni e gli abusi.

Il diritto della detrazione Iva spetta, quindi, se nel, periodo d’imposta controverso, indipendentemente dal volume delle operazioni, dallo scopo e dai risultati, l’impresa abbia effettivamente esercitato un’attività economica, intesa come comprensiva di ogni attività di produzione, commercializzazione o prestazione di servizi, per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità e la società medesima abbia impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta. Quello che rileva è che le sue operazioni non partecipano di una frode o non integrino, ai fini unionali, un abuso, inteso anche come realizzazione di una costruzione artificiosa.

Per la Cassazione in esame vale, quindi, il principio di diritto “L’art. 30, L. 794 del 1994, ai fini IVA, va disapplicato, non potendosi far derivare la privazione del diritto di detrazione dall’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso, alla luce degli stessi principi affermati dalla Corte unionale”.

Tale principio non viene dalla Corte di cassazione allargato al comparto delle imposte dirette, in quanto ricadente, quest’ultimo, sotto la sola sovranità impositiva nazionale. Tuttavia, chi scrive ritiene che l’obbligazione tributaria, nel momento in cui trasborda le coordinate che le derivano dalla capacità contributiva ed incide su un compendio patrimoniale del contribuente tutelato dal diritto rinforzato sulla proprietà (pur esso di rango costituzionale), anche se determinabile secondo moduli determinativi affrancati dal giudizio del giudice europeo, non rimanga sprovvisto di tutela comunitaria.

In ordine al diritto della proprietà, si deve considerare come a livello comunitario la Corte EDU, sentenza 25 giugno 2013, Gall c. Ungheria, ricorso n. 49570/11, abbia statuito che, in connessione con la tutela della proprietà, trovi applicazione l’articolo 1, Prot. 1, CEDU, ogni qualvolta venga a manifestazione nello Stato membro la sproporzione dell’imposizione fiscale propulsiva di forme di confisca della proprietà. I congegni impositivi sottesi alla disciplina delle società di comodo oltre ad essere privi di qualsiasi intrinseca logicità in ordine al rapporto inferenziale “obbligazione tributaria – presupposto d’imposta”, assumono, proprio per la mancanza di riscontro di un autentico fatto economico, la chiara sembianza di forme di confisca della proprietà

Si deve anche sottolineare, come i principi dell’ordinamento europeo rilevino pienamente sotto il versante dell’articolo 117, comma 1, Costituzione, il quale testualmente dispone che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’Ordinamento comunitario”. Risulta essere assolutamente consolidata l’opinione (si cfr F.Gallo, “I principi di diritto tributario: problemi attuali”, in Rass. Trib., 2008) per cui l’articolo 117, Costituzione, ha reso i principi generali del diritto comunitario parametri di legittimità (costituzionale) delle norme del diritto interno. La norma domestica deve essere, in primis, interpretata in via adeguatrice ai principi costituzionali (secondo il canone elaborato dalla Corte Costituzionale) e, quindi, pure a quelli comunitari, ovvero censurata, in quanto illegittima per contrasto con i predetti principi.

La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (nei quali è incluso il diritto della proprietà), per effetto del Trattato di Lisbona ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n° 130, ha assunto lo stesso valore giuridico vincolante dei Trattati, divenendo, quindi, vero e proprio principio costituzionale dell’Ordinamento Comunitario.

Per la giurisprudenza della Corte di Giustizia “la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, nei confronti del quale gli Stati membri hanno rinunciato ai loro poteri sovrani”. Tale ordinamento, al quale appartengono sia il Trattato di Roma, sia il diritto comunitario derivato, è indipendente e autonomo rispetto agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, nel senso che non deriva da questi ultimi, pur essendo integrato in essi, e tale autonomia costituisce il fondamento teorico da cui derivano le due colonne portanti del diritto comunitario: la validità e l’applicabilità diretta delle norme comunitarie e la loro prevalenza sul diritto nazionale.

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In dottrina (A. Giovannini) si è sottolineato come la strada più coerente per valutare la conformità del nostro sistema a quello dell’Unione dev’essere ricercata nell’articolo 3, Costituzione, e nella regola del controlimite in esso rinvenibile. Riferirsi all’articolo 3, Costituzione, significa, infatti, assumere come fondante il paradigma per cui all’identità sostanziale degli interessi individuali da proteggere, come per quelli collegati all’Iva e alle imposte sui redditi, deve corrispondere identità di strumenti e di tutele. La derivazione comunitaria del tributo (Iva) non è motivo sufficiente per giustificare una diversità di trattamento, giustificabile solo con la diversità degli interessi tutelati. L’articolo 3, scrutinato dal punto di vista della ragionevolezza, va attratto nella categoria dei contri limiti costituzionali, per così dire, alla rovescia. Il controlimite è generalmente inteso come barriera, come principio di chiusura all’applicazione diretta nel nostro ordinamento da parte del giudice nazionale dei principi dei trattati (o di loro interpretazioni giurisprudenziali), quando contrastanti con i principi costituzionali nazionali. Il controlimite, più in particolare, è una norma interna di matrice costituzionale che si oppone a quelle europee, perché appresta maggiori garanzie individuali di quelle offerte dalle regole e principi comunitari. L’interpretazione della legge nazionale, quindi, passa dal vaglio della Corte Costituzionale, la quale deve dare prevalenza al controlimite interno rispetto alle regole dell’Unione se le reputa con esso confliggenti “per difetto”, in quanto portatrici di minori tutele. Se tale è il principio d’unione delle leggi europee e delle leggi nazionali il controlimite deve operare alla rovescia: poiché la legge nazionale contrasta con la disciplina dell’Unione, per come interpretata dalla Corte di Giustizia, anziché “chiudere”, l’articolo 3, Costituzione, deve “aprire” al diritto europeo. A fronte di un interesse identico a quello proprio delle imposte armonizzate (Iva), l’articolo 3, Costituzione, consente, per le non armonizzate (imposte sui redditi), di giungere ad una tutela più ampia per il contribuente, dato che la sua limitazione soltanto ad alcuni settori impositivi contrasta proprio con il principio della ragionevolezza e con i principi posti a presidio della sua integrità patrimoniale, senz’altro protetti dalla nostra Carta. In questo senso, l’articolo 3, Costituzione, diventa “valvola di adeguamento”: in apertura, anziché in chiusura, ed in questo modo trovano piena applicazione anche gli articoli 24 e 97, Costituzione, coinvolti proprio per il tramite dell’articolo 3, Costituzione.

Se, quindi, per l’Iva il giudice di Cassazione nella sentenza in esame ha ritenuto che valga il principio di diritto: “L’art. 30, L. 794 del 1994, ai fini IVA, va disapplicato, non potendosi far derivare la privazione del diritto di detrazione dall’entità delle operazioni realizzate dalla contribuente, ma solo ove la situazione sia riconducibile ad una frode o ad un abuso, alla luce degli stessi principi affermati dalla Corte unionale”, tale disapplicazione, per il tramite del filtro dei rappresentati principi di diritto comunitario, non possono non valere anche per il comparto delle dirette.



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