Vi racconto la babele dei fondi Ue per la difesa


Molti che non seguono i complessi dibattiti sulla difesa nel dettaglio possono essere confusi dal dibattito sulla difesa comune o il riarmo e allora proviamo a fare ordine. La distinzione riguarda soprattutto le risorse da usare: non c’è alcun esercito europeo e non c’è modo di fare operazioni militari europee, il coordinamento tra Paesi europei nella difesa è soprattutto attraverso la Nato che è, appunto, un’alleanza militare.

Quindi, a meno di cambiamenti strutturali di cui non si discute, ogni forma di difesa europea passa per il coordinamento e l’integrazione degli apparati di difesa dei singoli Paesi. Se guardiamo la distinzione cara al Pd dal punto di vista operativo, cioè di chi ha i carri armati, gli aerei e i soldati, dunque è quasi priva di senso.

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Esiste un embrione di difesa comune ma è veramente poca cosa: dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022 l’Unione europea ha avviato un paio di iniziative.

C’è l’Asap, cioè Act in Support of Ammunition Production, 500 milioni di euro per finanziare progetti che aumentino la capacità di produrre munizioni da fornire poi all’esercito ucraino.

E c’è l’Edip, cioè European Defence Industry Programme: anche qui 500 milioni l’anno, che dovrebbero diventare 1-2 miliardi dal 2028, ma si tratta sempre di fondi che vanno a contribuire a programmi degli Stati membri.

Sono così pochi soldi, per di più “divisi su più progetti che a loro volta includono più imprese nazionali, non sono rilevanti per i ministeri della Difesa né per le industrie dei maggiori stati Ue, Italia compresa”, come scrive il ricercatore dell’Istituto Affari Internazionali Alessandro Marrone in uno studio sul tema.

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Si potrebbe fare un salto di scala soltanto con stanziamenti molto maggiori, nell’ordine di 100 miliardi l’anno, che però dovrebbero arrivare dal bilancio europeo, o spostando risorse da altre voci, o con aumenti di contributi da Stati membri, o con l’emissione di debito comune.

Anche se i fondi dell’Edip passassero da pochi spiccioli a 100 miliardi, comunque dovrebbero poi essere integrati da altri soldi a livello nazionale, come per i Fondi di coesione e il Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Insomma, non può esistere una difesa europea senza un riarmo nazionale per la semplice ragione che non esiste una struttura di difesa comunitaria se non la somma di quelle degli Stati membri.

E non c’è modo di aumentare le spese per la difesa senza sacrifici, sia che si tratti di togliere fondi ad altre spese o emettere debito che poi richiederà il pagamento di interessi e che comunque verrà usato per scopi militari invece che, per esempio, la transizione ecologica o quella digitale.

Il messaggio di Elly Schlein, che c’è un modo per rendere più sicura l’Europa senza che gli Stati membri comprino armi e rafforzino gli eserciti e che c’è modo di non far pagare tutto questo ai contribuenti italiani, è dunque ingannevole.

Così come è ingannevole un altro degli argomenti ripetuti da tutti i sedicenti esperti di difesa ostili all’aumento delle spese, cioè che basta integrare meglio gli apparati esistenti e si può addirittura risparmiare.

A parte che se si deve passare da 14 modelli di carri armati nei Paesi Ue a uno solo, per esempio, bisogna sostituire le dotazioni esistenti con quella comune prescelta, i fantomatici risparmi da sinergie sono una leggenda metropolitana priva di fondamento.

Lo hanno ricostruito Carlo Cottarelli e Leoluca Virgadamo in un paper per l’Institute for European Policymaking: la cifra di 100 miliardi di possibili risparmi da maggiore efficienza deriva da una stima spannometrica di un think tank belga fatta vent’anni su un confronto con gli Stati Uniti. Spunta in molti documenti ufficiali, ma è priva di ogni rilevanza.

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Visto che la difesa comune deve passare per forza dagli Stati membri e da un aumento delle loro spese, si capisce quindi perché la Commissione europea con Ursula von der Leyen ha proposto una deroga al patto di Stabilità e crescita, nello specifico con l’attivazione dell’articolo 122 dei trattati, quello che regola la solidarietà agli Stati membri in difficoltà.

Questa scelta giuridica prevede un voto a maggioranza qualificata, e non all’unanimità nel Consiglio europeo, in modo che l’Ungheria di Viktor Orban non possa bloccare il riarmo.

Armarsi per fare cosa?

Su un punto però Elly Schlein e i critici hanno ragione: non è chiara la strategia complessiva di questo riarmo. Cioè se deve servire a garantire la sicurezza del territorio europeo, a costruire una deterrenza nei confronti della Russia, ad aumentare il contributo europeo alla Nato o a sostituire le garanzie di sicurezza date dalla Nato da un nuovo assetto più autonomo.

Dopo che gli Stati Uniti hanno disattivato alcune tecnologie satellitari e di difesa anti-aerea fornite all’Ucraina, per costringere il presidente Volodymir Zelensky a trattare con la Russia, abbiamo anche capito che aumentare la spesa militare per comprare armi e strumentazioni prodotte in america con tecnologia americana potrebbe ridurre, invece che aumentare l’autonomia strategica dell’Europa.

Nell’immediato, poi, il piano ReArm Eu rischia di non essere di aiuto agli ucraini, sia che ci sia una tregua o che si continui a combattere, perché l’aumento di spesa militare degli Stati membri dell’Ue non si traduce necessariamente in maggiori forniture a Kiev.

Per questo l’economista Daniel Gros dell’Institute for European Policymaking della Bocconi ha lanciato la proposta di creare un fondo europeo sul modello della prima versione del fondo Salva Stati EFSF creato durante la crisi della Grecia e dell’euro, tra 2010 e 2011: uno schema di garanzie fornito dai governi che aderiscono per emettere obbligazioni con cui garantire 50-60 miliardi di euro di aiuti militari ogni anno all’Ucraina finché sarà necessario.

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Soldi che tornerebbero in gran parte nell’economia europea come commesse militari.

Basterebbero i quattro Stati più grandi dell’Ue con garanzie al 5 per cento del Pil per emettere fino a 500 miliardi di debiti.

Questo è il momento di essere creativi per costruire una nuova sicurezza europea alternativa a quella garantita dagli Stati Uniti.

Il problema è che molti cittadini europei – pacifisti o realisti che siano – e molti dei politici che li rappresentano non vogliono affrontare la realtà e le scelte difficili che ci costringe a fare.



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