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Guerra dei dazi: dalle banche, un silenzio che pesa sulla redditività


Quando si parla di guerra dei dazi, l’attenzione si concentra sulle industrie manifatturiere, sull’export e sulle dinamiche geopolitiche tra le grandi potenze economiche. Si analizzano gli effetti sulle aziende italiane più esposte ai mercati internazionali, sugli agricoltori che rischiano di perdere accesso a sbocchi commerciali strategici e sulle ripercussioni sul Pil nazionale. Ma c’è un settore che, come sempre, osserva con apparente distacco e parla poco di queste dinamiche: quello bancario.

Eppure, le banche italiane non sono affatto immuni dagli effetti di una guerra commerciale su larga scala. Al contrario, il loro modello di business e la loro redditività potrebbero subire impatti significativi, anche se in maniera meno immediata rispetto alle aziende manifatturiere. Il problema è che questa esposizione viene raramente evidenziata dagli istituti di credito, che sembrano più interessati a difendere margini e dividendi piuttosto che a spiegare ai propri clienti e ai mercati come un simile scenario possa incidere sulla loro stabilità finanziaria.

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Anche se le banche non commerciano direttamente beni soggetti a dazi, esse dipendono fortemente dalla salute dell’economia reale, dal funzionamento dei mercati finanziari e dalle politiche delle banche centrali. Una guerra commerciale globale genera instabilità su tutti questi fronti, con effetti che si riflettono sul credito, sui tassi di interesse e sulla raccolta di capitali. Vediamo in che modo questa dinamica può colpire le banche italiane.

Innanzitutto le imprese italiane che esportano in paesi coinvolti in dispute commerciali potrebbero registrare un calo della domanda per i loro prodotti, sia per l’aumento dei costi sia per le ritorsioni commerciali. Se le aziende colpite da questa crisi hanno debiti con le banche, il rischio di insolvenza cresce. In un contesto di bassa crescita economica, le banche potrebbero dover accantonare più riserve per crediti deteriorati, con un impatto negativo sui bilanci.

In secondo luogo, le guerre commerciali creano turbolenze sui mercati finanziari. Le banche italiane, che sono esposte ai mercati obbligazionari e azionari, potrebbero subire perdite sui loro portafogli di investimento. Inoltre, un clima di incertezza spinge gli investitori a chiedere rendimenti più elevati per acquistare obbligazioni bancarie, aumentando così il costo della raccolta per gli istituti di credito.

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Ma il fattore più insidioso per le banche italiane è l’effetto che la guerra commerciale potrebbe avere sulle decisioni della Banca Centrale Europea. Se i dazi frenano la crescita europea, la Bce potrebbe essere costretta a mantenere i tassi di interesse bassi per un periodo più lungo, o addirittura a tagliarli ulteriormente.
Questo scenario rappresenterebbe un problema per le banche italiane, perché il loro principale guadagno, negli ultimi anni, deriva dal margine di interesse, cioè dalla differenza tra i tassi che applicano ai prestiti e quelli che pagano sui depositi e sulla raccolta.

Con tassi bassi, le banche faticano a ottenere rendimenti adeguati sui prestiti, mentre i tassi sui depositi non possono scendere troppo senza causare un esodo di clienti. In un contesto di tassi in calo, gli istituti di credito vedono restringersi la loro principale fonte di redditività.

Questa situazione è già stata vissuta negli anni passati, con le banche italiane che hanno dovuto compensare la debolezza dei margini con aumenti delle commissioni sui servizi e con strategie di ristrutturazione interna. Ma il problema resta: se la Bce continua a tenere i tassi bassi a causa delle tensioni commerciali, gli istituti italiani dovranno trovare nuove strade per generare profitti, in un mercato che già presenta grandi difficoltà.

Non dobbiamo infine dimenticare che, se la guerra commerciale mette sotto pressione la redditività bancaria, la guerra vera e propria rappresenta invece un’opportunità. Come ho scritto qualche settimana fa, le banche finanziano le guerre, sostenendo industrie belliche e governi impegnati in conflitti globali. Il paradosso è evidente. Da un lato, la guerra commerciale riduce la capacità delle banche di generare redditività nel sistema produttivo tradizionale. Dall’altro, il settore bellico, grazie ai finanziamenti bancari, continua a prosperare.

Ma questo gioco è sempre più rischioso. Il coinvolgimento delle banche nel finanziamento delle guerre sta attirando l’attenzione dell’opinione pubblica e dei regolatori, con un crescente movimento che chiede maggiore trasparenza e responsabilità etica nel settore finanziario. Se la pressione sociale dovesse intensificarsi, le banche potrebbero trovarsi di fronte a una scelta: continuare a sostenere la guerra con il rischio di danni reputazionali sempre più pesanti oppure rivedere i propri modelli di business per cercare nuove fonti di redditività sostenibile.

Nonostante questi rischi concreti, il settore bancario italiano parla raramente delle conseguenze di una guerra commerciale. Il motivo è probabilmente una combinazione di fattori. Da un lato c’è la volontà di evitare allarmismi, perché le banche non vogliono spaventare gli investitori e i clienti con previsioni negative. Dall’altro lato c’è un forte istinto di autoconservazione, perché ammettere che il proprio modello di business è vulnerabile alla guerra dei dazi significherebbe accettare di dover cambiare strategia, cosa che molti istituti evitano finché possibile.

Infine, c’è un’evidente attenzione ai dividendi, con molti istituti italiani più concentrati sulla distribuzione di utili agli azionisti che sull’elaborazione di scenari macroeconomici complessi. La verità è che, ancora una volta, il settore bancario sembra più preoccupato di gestire il breve termine che di affrontare con trasparenza i problemi strutturali che ne minano la sostenibilità futura.

E mentre la redditività tradizionale viene messa sotto pressione dalle guerre commerciali, quella legata ai conflitti armati continua a crescere. Ma fino a quando?



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