Oltre le sbarre, esistenze restituite alla loro dignità

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Quasi ottant’anni dopo l’abolizione della pena di morte, in Italia si può ancora Morire di pena. Il giornalista Alessandro Trocino intitola così il suo saggio edito da Laterza (pp. 162, euro 14) con il quale riesce ad appassionare il lettore parlando addirittura di suicidio in carcere, senza alcuna traccia di quel voyeurismo che rende mediaticamente appetibile il tema e, come ricorda lo stesso autore citando Edoardo Albinati, di cui potrebbe essere sospettato «il borghese che si occupa di disgraziati».

«UN PICCOLO OBELISCO di carta» dedicato ai 1840 detenuti che si sono tolti la vita in cella dal 1992 ad oggi (secondo i dati di Ristetti orizzonti) e a tutti quelli che, privati della libertà personale, resistono, «in equilibrio tra memoria e oblio», per usare l’immagine evocata nella prefazione a firma di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi.

Trocino riesce effettivamente nel suo intento di raccontare le storie di undici detenuti e di un poliziotto penitenziario morti per suicidio negli ultimi anni con una scrittura che ha «la stessa forza lineare e geometrica» delle sbarre. E supera così la regola adottata dai giornali (norma che il manifesto non segue, come i nostri lettori sanno) che vieta di scrivere di suicidi «a meno che non siano di persone molto conosciute».

Eppure, concentrarsi sulle biografie – che non raccontano solo di esistenze ai margini e segnate, perché in carcere si finisce anche da innocenti – o tentare di ricostruire gli ultimi istanti antecedenti ad una scelta di per sé insondabile o, ancora, attribuirne le cause solo alle condizioni carcerarie è esercizio di stile che nulla aggiunge alla comprensione di un fenomeno obiettivamente fuori dal normale. Nel 2024, infatti, con 90 detenuti e sette agenti di polizia penitenziaria che hanno scelto di farla finita, il tasso dei suicidi in carcere è stato circa venti volte superiore a quello registrato dall’Istat nella popolazione libera residente in Italia. E non va meglio neppure quest’anno, quando già se ne contano 15. Ma spesso, troppo spesso, a far più paura è la libertà.

IN OGNI CASO, le storie di questi undici uomini e di una donna raccontate da Alessandro Trocino rivelano soprattutto il buio e l’incomunicabilità che segnano oggi l’universo carcerario, incapace di districarsi dall’ottusa burocrazia e di superare muri umani ben più alti di quelli di cinta. Ogni racconto sembra diviso in un prima e un dopo. E se i particolari di quelle vite, che riemergono attraverso il ricordo di amici e parenti, spalancano finestre su orizzonti – forse inaspettatamente – anche talvolta ricchi e interessanti, il mondo sembra invece rinchiudersi inesorabilmente in un antro oscuro quando il giornalista ricostruisce la reazione a quel suicidio dell’amministrazione penitenziaria e dello Stato, l’abbandono dei parenti e delle salme, l’incapacità di provare empatia o almeno pietà, perfino il «tradimento» delle divise.

Il carcere, visto negli istanti del «dopo», mostra davvero di essere un’isola, come ricorda anche Daria Bignardi nel suo libro (Ogni prigione è un’isola, Mondadori 2024), e di produrre isolamento in ciascuna delle persone che vi vivono dentro, da una parte e dall’altra delle sbarre. Cosicché le cimici e i topi che qualche volta infestano le cosiddette «stanze di pernottamento», sempre più chiuse anche di giorno, i maltrattamenti, le malattie non curate, le dipendenze da farmaci e sostanze, o i segnali di malessere psichico senza soccorso raccontati dal cronista del Corriere della Sera sembrano soltanto l’indizio di un’infermità assai più grave, che si conferma nella vergogna di famiglie dimenticate dopo la morte del loro congiunto, senza neppure qualcuno che si prenda la briga di dare loro la triste notizia.

È importante che Trocino ricostruisca nei particolari anche il caso di Salvatore Cuono Piscitelli, uno dei detenuti trasferiti dalla Casa circondariale di Modena a seguito della rivolta scoppiata l’8 marzo 2020 durante la quale venne presa d’assalto l’infermeria con la sua riserva di metadone e di sostanze psicoattive, per cercare risposte alle domande che ancora assillano chi gli ha voluto bene: come e quando esattamente è morto Sasà? Si poteva salvare?

A VOLTE C’È DIVERGENZA sulla conta dei suicidi in prigione: alcuni casi vengono rubricati dall’amministrazione penitenziaria come incidenti o computati tra le morti sospette con cause da accertare. Ma è particolare trascurabile. Quello che importa davvero è la disumanizzazione: «In cella ti cancellano l’identità. Per le donne vale ancora di più perché i penitenziari sono un’istituzione totale pensata dagli uomini e per gli uomini», scrive Trocino riportando la storia di Donatela Hodo, «fragile come un cristallo di Boemia», morta nel 2022. Dopo il suo suicidio, un magistrato di sorveglianza ha trovato il coraggio che manca a chi si è fatto abbrutire dal carcere: «Ho fallito – scrisse Vincenzo Semeraro -, tutto il sistema ha fallito. Non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più per lei».



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