l’insensata guerra culturale contro l’auto elettrica

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Il caso Fratoianni-Piccolotti è anche un capitolo di una battaglia combattuta con armi retoriche di ogni tipo da anni. Qualcosa che sta facendo perdere all’industria automotive europea del tempo che già non aveva per compensare il ritardo accumulato in questi anni con i concorrenti asiatici e americani

Il clima di diffusa derisione nei confronti di Nicola Fratoianni ed Elisabetta Piccolotti di Avs, per il fatto di essere proprietari di una Tesla in leasing, è in apparenza solo l’ennesimo capitolo della lunga storia di paradossi sul rapporto tra i progressisti italiani, i soldi e il lusso: la barca a vela di Massimo D’Alema, il cachemire di Fausto Bertinotti e così via.

È un repertorio che fa sempre ridere e quindi ne abbiamo riso, o sorriso. Però, se uno guarda bene, questo surreale dibattito fa parte anche di un altro repertorio, molto più problematico: la guerra culturale in corso contro l’auto elettrica, combattuta con armi retoriche di ogni tipo da anni, qualcosa che sta facendo perdere all’industria automotive europea del tempo che già non aveva per compensare il ritardo accumulato in questi anni con i concorrenti asiatici e americani.

Il fallimento di Northvolt

All’auto elettrica in Italia servono infrastrutture, incentivi e politica industriale, ma servono anche clienti. Per un settore in crisi di innovazione, mercato e futuro, trattare a ogni occasione buona chi compra la macchina elettrica come un ricco scemo non è esattamente l’idea più lungimirante del mondo, soprattutto per un prodotto che vive tanto di percezioni e di desiderio.

E poi in generale c’è davvero poco da ridere. Mentre ogni politico italiano di ogni ortodossia veniva coinvolto con una frase a effetto e un lancio di agenzia nel Tesla-gate partito sul Foglio, Northvolt, un tempo campione europeo delle batterie, la nostra principale speranza contro lo strapotere cinese, dichiarava fallimento in Svezia, dopo aver già aderito al Chapter 11 per la protezione dalla bancarotta negli Stati Uniti.

Una notizia attesa ma tremenda per le prospettive di reindustrializzazione verde europea, che anche nei suoi prospetti più promettenti non riesce a tenere il passo della concorrenza asiatica.

In questo scenario, noi siamo qui a fare stand-up comedy come in una versione aggiornata della canzone di Giorgio Gaber, in cui il politico di sinistra dovrebbe per forza avere una utilitaria autarchica e popolare a diesel per essere considerato tale, inoltre Enrico Berlinguer non lo avrebbe fatto (Massimo Gramellini) e così via. La storia ci ha colpito perché l’auto elettrica è considerata da ricchi o perché Elon Musk è diventato un estremista di destra? Forse entrambe le cose.

Crisi Tesla

Tesla è in una crisi reputazionale e politica senza precedenti. Negli Stati Uniti tra il 2012 e il 2022 metà dei nuovi veicoli elettrici erano stati venduti nel 10 per cento delle contee più democratiche.

Poi Musk si è appassionato di politica. La California è stata per anni il mercato statunitense più grande per Tesla: qui le vendite sono calate per cinque trimestri consecutivi. Oggi solo un elettore democratico su dieci comprerebbe un’auto da Elon Musk, secondo un sondaggio di Morning Consult.

Le vendite sono crollate anche nei mercati europei più propensi, come Norvegia e Germania, dove c’è anche l’unico stabilimento continentale di Musk. Dal 1° gennaio le azioni sono crollate del 34 per cento, polverizzando l’aumento che avevano vissuto dopo le elezioni. La crisi d’immagine vive di segnali allo stesso tempo ovvii e sorprendenti.

Il 7 febbraio Extinction Rebellion ha occupato il Tesla Store di Milano: se cinque anni fa ci avessero raccontato che un movimento per il clima avrebbe preso di mira in modo così diretto proprio le auto elettriche avremmo pensato a un’allucinazione. Nella logica di movimento, l’azione ha pure un senso e una logica, Tesla è diventato un brand tossico e non ci si può far nulla.

Oltre Tesla

Il problema è che in gioco qui c’è molto più di Tesla, ed è la reputazione dell’auto elettrica come tecnologia chiave sia per la transizione energetica sia per la reindustrializzazione europea. La vergogna elettrica che si sta diffondendo in Europa è un’ottima notizia per i petrolieri.

Le rassegne stampa in cui questa vicenda è stata accolta meglio sono quelle delle aziende oil and gas e dei produttori di auto più in difficoltà con la transizione, e in generali nei cuori di tutti quelli che stanno provando a ritardare il phase-out previsto al 2035, uno scenario che aggraverebbe la crisi industriale (e climatica).

Chiedersi perché due critici del capitalismo comprino una Tesla è una buona domanda per un articolo di costume. Chiedersi perché comprino un’automobile elettrica americana, temporaneamente prodotta a Berlino finché gli umori di Musk reggono, è una domanda più utile, almeno per chi ha a cuore il futuro dell’Unione europea.

Se proprio vogliamo uscire dal repertorio Bertinotti/D’Alema, potremmo sfruttare l’occasione per chiederci perché chi ha quel potere di spesa ha così poche opzioni europee o italiane a disposizione. Anche perché tra qualche anno l’associazione alta borghesia–auto elettrica sparirà, per fortuna, non per merito dell’industria europea ma perché i nostri mercati saranno invasi dalle utilitarie cinesi a buon mercato come quelle di BYD.

Tra qualche decennio, la buffa polemica su Fratoianni, Piccolotti e il leasing della Tesla sembrerà l’assurdo reperto di un’altra epoca, ma forse anche il tipping point, il punto di non ritorno della transizione energetica italiana: non solo non riuscivamo a competere con la produzione asiatica di nuove tecnologie dell’automotive dal punto di vista dell’offerta, ma trovavamo anche il tempo di ridicolizzare gli acquirenti dal punto di vista della domanda. Anni in cui si produceva poco, ma si rideva di gusto.

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