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«Sì, certo, una bella idea la tregua, ma…». È quel «ma» che fa la differenza tra Putin e Zelensky, il presidente ucraino che invece del leader russo ha detto sì senza condizioni alla proposta di Trump, al cessate il fuoco per 30 giorni e all’avvio del negoziato di pace. Non così Putin, trasparente nella sua intransigenza sulla tregua e sulla guerra. Mai che sia arretrato, in tre anni e più, sulle pretese di fondo. Mai una concessione vera a Zelensky. A dimostrarlo, ieri, l’esclusiva del Washington Post che illustra il documento di un think tank legato al Quinto servizio dell’Fsb, l’ex Kgb, la divisione dei servizi segreti russi che supporta le operazioni in Ucraina. L’analisi risale a febbraio ed è finalizzata ai colloqui di Gedda con gli americani. È in quelle carte che si ritrova la linea del Cremlino, con le 6 condizioni che Putin considera irrinunciabili anche solo per far tacere le armi e sedersi al tavolo delle trattative. La formula che le comprende, come un ombrello, è quella che ieri Putin ha ripetuto senza neanche inventarsi parafrasi per non apparire noioso: «Rimuovere le cause profonde della guerra, per arrivare a una pace duratura». Significa tornare indietro a prima del 2014.
LO SCETTICISMO
Il think tank vicino all’Intelligence russa tradisce uno scetticismo di base. I piani preliminari per l’accordo di pace in 100 giorni voluto da Trump sarebbero «impossibili da realizzare»: la pace non ci sarà prima del 2026. La prima condizione per accogliere almeno la tregua è che l’Ucraina riconosca la sovranità russa non solo sulla Crimea, annessa da Mosca nel 2014, ma sulle quattro regioni soltanto parzialmente occupate nell’offensiva partita nel febbraio 2023: Zaporizhzhia e Kherson nel Sud, Lughansk e Donetsk a est. Ma non basta. Kiev dovrebbe digerire la creazione di zone cuscinetto demilitarizzate, terre di nessuno a nord-est in prossimità delle regioni russe di Bryansk e Belgorod, più volte colpite dalle forze di Kiev, e poi a sud, a ridosso della zona di Odessa. La seconda condizione, indicata anche nel documento dell’Fsb, è la caduta del governo Zelensky, la celebrazione di nuove elezioni dalle quali dovrà scaturire un esecutivo filo-russo, o almeno neutrale. Gli 007 usano termini più espliciti della «denazificazione» di cui parla Putin. Invocano lo «smantellamento completo» dell’attuale governo ucraino. Ovvio che l’Ucraina dovrebbe anche rinunciare da qui all’infinito all’ingresso nella Nato e dichiararlo a scanso di cambi d’amministrazione a Washington. Un dettaglio non secondario è al cuore di un’altra richiesta: appena scatterà la tregua, dovrà cessare qualsiasi aiuto all’Ucraina, specie militare, dall’Occidente, per evitare che l’esercito di Zelensky ne approfitti per riarmarsi. E, contemporaneamente, gli Stati Uniti di Trump dovrebbero dare un segnale di apprezzamento cominciando a togliere le sanzioni (che al momento della firma sull’accordo dovranno essere state cancellate in toto). Naturalmente, neanche a parlare di un contingente di pace in Ucraina formato da truppe di Paesi europei della Nato. La Russia potrà accettare al massimo, si legge ancora nel rapporto dei servizi, di non schierare i suoi missili balistici a medio raggio Oreshnik in Bielorussia, sul confine con la Ue. Ma anche gli Stati Uniti dovrebbero impegnarsi a non collocare nuovi sistemi missilistici in Europa. Inoltre, l’esercito ucraino dovrebbe ridursi numericamente, da un milione di uomini a poche decine di migliaia. E c’è il nodo della missione di osservatori che dovranno verificare il rispetto del cessate il fuoco e, poi, delle condizioni per la pace. Putin, da navigatore di lungo corso, non vuole rompere con Trump e per questo il suo portavoce, Dmitry Peskov, interpellato sul documento dell’Fsb, dice che il Cremlino sta lavorando «su opzioni più ponderate». Eppure, è l’intera macchina della propaganda bellica russa, dai milblogger (i blogger militari) agli esponenti della Duma fino agli anchormen di regime e a voci estreme della politica, come quella dell’ex presidente Medvedev, a spingere per dire «no» a una intesa che silenzi le armi. Perché i russi, Putin per primo, sono convinti di poter vincere, e che il tempo giochi in loro favore. Il dittatore sa che guerra o pace è solo una parte del problema. «La posta in gioco per Putin – scrive su X Dmitry Alperovitch, presidente del Silverado Policy Accelerator, una fondazione americana – è molto più grande dell’Ucraina, il premio più importante è la normalizzazione diplomatica Usa-Russia, l’eliminazione delle sanzioni, la frattura in seno alla Nato». In questo senso, Putin vuole «prolungare i negoziati posizionandosi come un vero, autentico amico di Donald Trump, che lui capisce completamente e che, anzi, vuole aiutare a raggiungere i suoi obiettivi negli Stati Uniti». È questo il crinale sul quale si muove lo Zar. Non respinge la trattativa, gli serve complicarla ponendo condizioni che la allontanino. Né perde occasione di stringere con Trump un’alleanza strategica che isoli l’Europa e faccia implodere la Nato. Perché a quel punto la guerra di Putin in Ucraina avrebbe ottenuto il suo obiettivo strategico: spaccare la Nato, spaventare e dividere l’Europa, collocare la Russia in posizione di vantaggio per nuove avventure imperialiste.
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