Sugar tax? No, meglio una Fat Tax

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La tassa sullo zucchero aggiunto, in vigore da luglio, non sembra la più appropriata per rispondere alle problematiche nutrizionali del nostro paese. Più adatta allo scopo appare una tassa sui grassi saturi. Con quali costi e benefici per i consumatori?

Sugar Tax in arrivo in Italia

Già introdotta in molti paesi (compresi Stati Uniti, Francia, Irlanda, Spagna, Ungheria e Regno Unito), la Sugar Tax si fonda sulla legge della domanda: aumentando il prezzo dello zucchero aggiunto, e di conseguenza quello delle bevande zuccherate che lo contengono, si prevede una riduzione del consumo. La diminuzione dell’assunzione di zuccheri è associata a un minor rischio di patologie cardiovascolari e obesità, con potenziali benefici per la salute pubblica e una riduzione dei costi sanitari.

In Italia, la Sugar Tax è stata proposta per la prima volta con gli emendamenti alla legge di bilancio del 2020, ma la sua entrata in vigore è stata ripetutamente posticipata fino al luglio 2025. Combinando dati sui consumi alimentari degli italiani adulti raccolti dall’Istat (Indagine sui consumi delle famiglie, 2013-2018), informazioni sui principi nutritivi degli alimenti fornite dall’Istituto europeo di oncologia (Ieo) e stimando un sistema di domanda completo, il nostro studio: “Sugar versus Fat: the Case for a Saturated Fat Tax in Italy”, mostra che, in Italia, il consumo di zuccheri aggiunti tra gli individui adulti supera la soglia critica definita dall’Organizzazione mondiale della sanità di 30 grammi al giorno soltanto tra gli individui con redditi più elevati, mentre il consumo di grassi saturi eccede il limite per tutte le classi di reddito (figura 1).

Lo studio

Il nostro risultato suggerisce che, nel contesto italiano, una tassa sui grassi saturi potrebbe avere una maggiore giustificazione rispetto a una Sugar Tax in un’ottica pigouviana, – cioè per ridurre il rischio di obesità, malattie metaboliche e cardiovascolari e i costi sociali a esse associati – poiché rifletterebbe meglio le specificità delle abitudini alimentari nazionali.

Figura 1 – Consumi giornalieri medi di zuccheri e grassi saturi (grammi/giorno) per gli adulti (quintili di reddito, 2013-2018)

Abbiamo calcolato gli effetti di benessere netti – che tengono conto sia dei costi sia dei benefici di breve periodo – che potrebbero derivare dall’introduzione di una nutrient tax (basata sul contenuto di grassi saturi degli alimenti) che ne riduca il consumo del 30 per cento, portandolo vicino alla soglia raccomandata dall’Oms. Abbiamo anche calcolato gli effetti distributivi di una Fat Tax per i consumatori adulti in Italia.

Difficile sostituire i grassi nelle abitudini di consumo

La stima degli effetti della Fat Tax tiene conto sia della variazione dei consumi delle famiglie e del peso della tassa sui loro bilanci, sia degli effetti sulla salute.

Per quanto attiene al primo punto, i nostri risultati suggeriscono che i consumatori adulti sopporterebbero un costo di benessere aggiuntivo medio di circa 11 euro al mese, a causa della difficoltà nel modificare rapidamente le proprie abitudini alimentari. Infatti, sebbene le elasticità prezzo dirette della domanda di alimenti più ricchi in grassi saturi non siano rigide (formaggi e grassi -1,432, carne processata -0,324, latte e uova -1,003), quelle incrociate rivelano basse sostituzioni tra alimenti ricchi di grassi saturi e alimenti con migliori contenuti nutrizionali. Per esempio, un aumento dell’1 per cento nel prezzo della carne processata produrrebbe un aumento dello 0,06 per cento nei consumi di vegetali, dello 0,12 per cento nei consumi di frutta e dello 0,21 per cento nei consumi di cereali. Le reazioni dei consumatori rivelano una non facile sostituzione, almeno nel breve periodo, dei beni a elevato contenuto di grassi. Di conseguenza, la variazione compensativa, che approssima il costo di benessere della misura fiscale per i consumatori e che tiene conto sia delle elasticità prezzo dirette sia di quelle incrociate, non è trascurabile e supera il beneficio individuale di breve periodo.

Per quanto riguarda i benefici individuali di breve periodo della tassa, la nostra stima considera la potenziale riduzione di peso associata a una diminuzione nel consumo di grassi saturi dopo un anno di introduzione della Fat Tax e il calo di spesa per la salute che ne discenderebbe: in media di circa 5 euro al mese, assumendo un effetto diretto e immediato della riduzione di peso sul rischio di malattie metaboliche e cardiovascolari. Questi benefici sarebbero distribuiti in modo diseguale: sarebbero più marcati per le fasce di reddito più alte (fino a 9€/mese di risparmio), tra le quali si osservano i maggiori consumi di grassi saturi (figura 1), mentre per le fasce di reddito più basse non si avrebbero riduzioni significative (si vedano le barre celesti in figura 2).

Gli effetti distributivi

Per quanto riguarda gli effetti distributivi, la figura 2 mostra costi e benefici in valore assoluto più elevati per le fasce di reddito più elevate. Ma se considerata in proporzione al reddito, approssimato dalla spesa totale per consumi correnti, la Fat Tax risulterebbe lievemente regressiva poiché inciderebbe proporzionalmente di più sui redditi bassi (figura 3).

La letteratura economica anglosassone suggerisce la possibilità di un impatto redistributivo non regressivo di questo tipo di imposte qualora si tenga conto dei benefici attesi per la salute, oltre che dei costi di benessere. Non è così nel nostro caso perché l’impatto distributivo sarebbe lievemente regressivo anche tenendo conto dei benefici per la salute, seppure soltanto nel breve periodo. 

In conclusione, l’analisi suggerisce che, in un’ottica pigouviana, una tassa sui grassi saturi potrebbe avrebbe basi più solide rispetto a una Sugar Tax e garantirebbe notevoli introiti fiscali, ma comporterebbe per i consumatori italiani costi superiori ai benefici, almeno nel breve periodo.

Figura 2 – Costi, benefici (euro/mese) ed effetto netto di una tassa che riduca del 30 per cento il consumo di grassi saturi

Figura 3 – Costi, benefici ed effetto netto relativamente alla spesa totale

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Silvia Tiezzi

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Silvia Tiezzi è professoressa associata di Politica Economica presso il dipartimento di Economia e Statistica dell’Università di Siena.
I suoi ambiti di ricerca riguardano: Consumer Economics, Environmental Economics, Health Economics, Applied Micro Econometrics, Design and Analysis of Laboratory Experiments



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