Reggio Emilia, operazione contro la ‘ndrangheta dieci anni dopo Aemilia: tutti i nomi degli indagati

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito


Reggio Emilia Gente picchiata, costretta a inginocchiarsi davanti al boss e a baciargli i piedi per una deposizione contro di lui in un dibattimento. E, ancora, un fitto giro di fatture false e di reati tributari, una vasta disponibilità di armi, estorsioni, truffe e ricettazione di beni provento di furti commessi ai danni di ditte di autotrasporto, per agevolare l’attività dell’associazione mafiosa. È un mix inquietante di metodi “tradizionali” del clan di ’ndrangheta, mescolato a un “abito” più moderno indossato di recente, ovvero i reati tributari, quello sgominato dall’operazione Ten, così denominata perché culmina a 10 anni dall’operazione Aemilia.

Il duro colpo alla ’ndrangheta è stato inferto dopo una complessa indagine basata anche su processi precedenti quali, appunto, Aemilia, Grimilde e Perserverance, e sulle dichiarazioni di collaborazioni di giustizia come Giuseppe Giglio, Antonio Valerio e Giuseppe Liperoti. La Squadra Mobile di Reggio Emilia, con l’ausilio del servizio centrale operativo e della Squadra Mobile di Bologna e Crotone, e la Guardia di Finanza reggiana, hanno eseguito dalle prime ore dell’alba di mercoledì 12 marzo  19 perquisizioni a Reggio Emilia, a Bibbiano, Quattro Castella, Brescello, Crotone, Steccato di Cutro e in provincia di Parma, dove aveva sede la maggior parte delle società cartiere. Sei le persone finite in carcere, venti gli indagati.

I provvedimenti sono stati emessi dal gip del tribunale di Bologna Alberto Ziroldi, su richiesta della Procura felsinea-Direzione distrettuale antimafia, all’esito di un’indagine lunga e complicata, ribattezzata Ten, coordinata dal sostituto procuratore Beatrice Ronchi, nei confronti di esponenti della ’ndrangheta in Emilia. Sodalizio che aveva come epicentro Reggio Emilia. I risultati dell’operazione sono stati illustrati ieri alla sala Palatucci della Questura, dal questore Giuseppe Maggese, dal procuratore di Bologna Francesco Caleca, dal sostituto procuratore Ronchi, dal capo della Mobile, Andrea Napoli, dal comandante della Guardia di Finanza, Ivan Filippo Bixio e dalla comandante del nucleo di polizia economico finanziaria Maria Di Domenica (foto in alto a sinistra). Le indagini su più episodi di violenza, minacce e reati tributari riportati dalle indagini hanno evidenziato l’operatività, nella cosca ’ndranghetistica emiliana, del clan Arabia. Giuseppe Arabia, 59 anni, a capo del sodalizio – già condannato con sentenza passata in giudicato per associazione a delinquere di stampo mafioso e il cui fratello, Salvatore Arabia, fu ucciso il 20 agosto 2003 a Steccato di Cutro. Secondo quanto affiorato, il delitto è riconducibile ai Grande Aracri.  Ebbene, in nome del profitto i clan rivali Dragone, cui storicamente fanno riferimento gli Arabia, e i Grande Aracri, non si sparano più per strada come durante la “guerra di mafia”, ma si sono alleati per spartirsi l’Emilia.

Ecco gli indagati: Giuseppe Arabia (classe 1966), Giuseppe Arabia (1989), Nicola Arabia (1985), Nicola Arabia (1987), Salvatore Arabia (1993), Rosario Aracri (1971), Romualdo Caminiti (1980), Lina Cerminara (1991), Pasquale Copertino (1962), Ismaele Del Vecchio (1981), Teresa De Novara (1965), Giuseppe Giglio (1967), Ramona Leonetti (1988), Luigi Lerose (1991), Enzo Macario (1973), Maria Marino (1973), Salvatore Messina (1980), Giuseppe Migale Ranieri (1978), Salvatore Spagnolo (1191) e Luca Spotti (1977). Sei le persone finite in carcere. Si tratta di Giuseppe Arabia, classe 1966), del nipote Giuseppe Arabia, (1989), dell’altro nipote Nicola Arabia (1985), Salvatore Messina, Salvatore Spagnolo (1991) e Giuseppe Migale Ranieri (1978). Giuseppe Arabia, 59 anni, di Cutro, era già stato condannato con sentenza passata in giudicato per associazione a delinquere di stampo mafioso.

«Non è mai uscito dalla ‘ndrangheta e, praticamente da una vita, agisce entro la temibile organizzazione mafiosa con un ruolo apicale sempre più importante, anche tenuto conto degli arresti, delle condanne e delle carcerazioni ai vertici della cosca», scrive il gip Ziroldi. Il boss Giuseppe “Pino” Arabia (classe 1966), rimase in carcere dall’ottobre 2005 al settembre 2014, mantenuto dai nipoti con i proventi della falsa fatturazione, con il ruolo di promotore, capo e organizzatore, forniva costante contributo all’associazione mafiosa. Giuseppe Arabia (1989) e Nicola Arabia (1985) erano il collante tra “Pino”, in carcere, e gli altri sodali. Si occupavano di armi e del loro trasporto da Cutro, anche dopo il sequestro effettuato dalla Squadra Mobile di un fucile calibro 12, nascosto nel gommone sgonfio su un camion, mentre mercoledì è stato sequestrato, a Crotone, nell’ambito delle perquisizioni, un fucile calibro 9 ed è stato arrestato in flagranza uno degli indagati. Il meccanismo di frode con l’emissione delle fatture false per 1 milione e 802 mila euro verso 12 società utilizzatrici ha fruttato al clan un guadagno per oltre 326mila euro, sequestrati. Le società alle quali sono state sequestrati fondi sono: Totalservice (109.274 euro), Area service srl (48.419 e 8.067 euro), Multi Service srl (2.175 euro), Solar più srl (65.670 euro), A.G. Motors (11.281 euro) e General Rent srls (33.462 euro). Sono state inoltre perquisite le sedi di sei società. © RIPRODUZIONE RISERVATA



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link