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Tra i pochi punti in comune della scorsa legislatura della Commissione Europea e quella attuale c’è la sete di materie prime critiche. La versione green della presidente Ursula von der Leyen, in carica dall’1 dicembre 2019 al 30 novembre 2024, e la versione pro-riarmo che abbiamo imparato a conoscere in questi giorni sono entrambe caratterizzate dalla necessità di una maggiore autonomia per quel che riguarda le forniture dei minerali e dei metalli. Che si tratti di pannelli fotovoltaici o di mezzi militari, infatti, i minerali e i metalli necessari a costruirli sono ottenuti in gran parte al di fuori dell’Unione Europea. Ad ammetterlo è lo stesso Consiglio europeo, secondo il quale “l’UE non sarà mai autosufficiente ma mira a diversificare l’approvvigionamento”.
IL NODO CENTRALE, in fondo, sta tutto qui. Attualmente per alcune materie prime critiche i 27 Stati membri dell’UE dipendono esclusivamente da un singolo Paese: la Cina fornisce il 100% dell’approvvigionamento di elementi delle terre rare pesanti nell’Ue, la Turchia fornisce il 98% dell’approvvigionamento di boro, il Sud Africa fornisce il 71% del fabbisogno di platino. Appena un anno fa le stime della Commissione indicavano scenari possibili al 2030 e al 2050, prevedendo una domanda elevata di materie prime critiche, in cui ad esempio i dati relativi a un metallo fondamentale come l’alluminio sarebbero schizzati dalle 32mila tonnellate annue del 2020 alle 206mila tonnellate/anno del 2050. E tali previsioni non avevano fatto i conti con il recente piano RearmEU della difesa da 800 miliardi di euro.
ALLA LUCE DI TUTTO CIÒ È IMPORTANTE analizzare i provvedimenti in vigore. Esattamente un anno fa è entrato in vigore il Critical Raw Materials Act, il regolamento sulle materie prime critiche che in 67 pagine, costituite da 49 articoli e 5 allegati, si propone di istituire “un quadro atto a garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile”. Per farlo l’Unione Europea ha fissato alcuni target da raggiungere al 2030: almeno il 10% del consumo annuo deve provenire da estrazioni all’interno dell’UE; almeno il 40% del consumo annuo deve provenire da trasformazione; almeno il 25% del consumo annuo deve provenire da riciclaggio interno; non più del 65% del consumo annuo di ciascuna materia prima critica può provenire da un unico Paese terzo. Più facile a dirsi che a farsi, considerando che l’arco temporale fissato è risicatissimo e che la filiera europea risulta poco strutturata e procede a strappi.
IL DESIDERIO DI UNA MAGGIORE autonomia si scontra con il ritorno delle estrazioni minerarie, che sono molto impattanti dal punto di vista ambientale e vengono spesso osteggiate dalle popolazioni locali, come hanno dimostrato le forti proteste in Serbia durante buona parte del 2024 contro la multinazionale anglo-australiana Rio Tinto che vorrebbe aprire la più grande miniera di litio d’Europa nella valle agricola del fiume Jadar, vicino al confine con la Bosnia.
D’altra parte in una riunione del comitato per le materie prime critiche l’ex commissario Thierry Breton ha ricordato che le risorse significative disponibili nel Vecchio Continente sono meno della metà delle 34 materie prime critiche individuate dalla Commissione. In questo senso, invece, l’ambito più immediato sul quale puntare è quello della cooperazione. “Parallelamente abbiamo i mezzi per diversificare le nostre importazioni, grazie ai 12 partenariati strategici che abbiamo firmato con i Paesi terzi” ha ricordato ancora Breton. Ma la prospettiva più a lungo raggio fa affidamento sull’economia circolare, attraverso concetti come il riciclaggio, il riutilizzo e la riduzione della produzione.
SUL RICICLAGGIO LE POTENZIALITÀ sono enormi, tanto che si parla di “miniere urbane”, come ad esempio nel caso dei Raee, i Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche, su cui c’è una filiera già strutturata che deve solo essere potenziata, a partire dalla raccolta. Altrettanto importante è la possibilità di riutilizzare, ad esempio, i più comuni oggetti d’uso quotidiano che contengono le preziose materie prime critiche, permettendo di poterli riparare per farli durare più a lungo, invece che disfarsene dopo poco tempo: il caso più emblematico è quello degli smartphone ma lo stesso discorso vale per i pc, le lavatrici, le tv, le consolle di videogiochi. Tuttavia su questo versante mancano cifre precise di quanto tali pratiche potrebbero incidere sulla riduzione della domanda. E l’Italia? Più di altri il nostro Paese ha scoperto tardi l’urgenza di doversi dotare di una politica adeguata sulle materie prime critiche.
AL MOMENTO IL GOVERNO MELONI si è fatto notare più che altro per la volontà di consentire le estrazioni minerarie persino sui fondali marini, note anche con l’espressione inglese “deep sea mining”. Come ha rivelato un’indagine di Greenpeace Italia a giugno 2024, in assenza di una normativa internazionale gli Stati finora si sono mossi in maniera autonoma e in Europa soltanto la Norvegia ha autorizzato il deep sea mining. Il più attivo nella promozione delle estrazioni in Italia, non solo sul mare ma anche a terra e addirittura nello spazio, è il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso.
AL DI LÀ DELLE DICHIARAZIONI l’unico provvedimento concreto adottato dal governo finora è la legge n°115 del 2024 con la quale si recepisce il regolamento europeo sulle materie prime critiche. Una legge che prova a rilanciare il moribondo settore minerario, con le ultime miniere chiuse negli anni ‘70 del Novecento a causa degli insostenibili costi ambientali ed economici, e che punta a velocizzare l’iter autorizzativo escludendo la valutazione di incidenza per giacimenti già noti. Mentre nei 16 articoli del testo legislativo non si fa alcun riferimento né all’economia circolare né alle miniere urbane.
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