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Nel corso dell’ultimo decennio, il numero di insegnanti precari in Italia è cresciuto a dismisura, fino a raggiungere nel 2024 la cifra di circa 234.500 unità, un quarto delle cattedre complessive della scuola. Eppure, non si comprende ancora fino in fondo la portata di questo dato che, peraltro, non include colleghe/i che hanno ricevuto incarichi per supplenze brevi.
Il precariato scolastico, oltre a essere un problema per gli insegnanti, lo è anche e soprattutto per gli studenti, privati di continuità didattica e di figure di riferimento importanti nella loro crescita, con rilevanti ricadute in termini di dispersione scolastica.
All’interno di un quadro già di per sé problematico, si è innestata la riforma introdotta dal decreto legge 36/2022, conosciuta come riforma Bianchi, che ha stabilito nuove regole per la formazione iniziale dei docenti. La novità più importante risulta essere quella dei corsi universitari da 60, 36 e 30 CFU, per ottenere l’abilitazione e con essa l’iscrizione alla prima fascia delle Gps, non la stabilizzazione. I decreti attuativi della riforma, tuttavia, hanno reso questi corsi inaccessibili su tre livelli:
- numerico: i posti sono contingentati
- economico: il costo varia da 2.000 a 2.500 euro
- geografico: i corsi, soprattutto per alcune classi di concorso, non sono distribuiti uniformemente a livello nazionale
Appare, dunque, evidente la natura discriminatoria dei criteri per accedere ai suddetti corsi, con l’aggravante di aver concesso la precedenza a chi era già in possesso di un’abilitazione su diversa classe di concorso o sul sostegno.
Inoltre, questi corsi, pur non precludendo l’inclusione in Gps, dal prossimo anno saranno obbligatori per l’iscrizione ai concorsi a cattedra. Ciò ha innescato una vera e propria corsa all’abilitazione, che ha finito per frammentare ulteriormente la già divisa categoria dei precari della scuola. Conta sottolineare che davanti ai nostri occhi si va delineando un sistema di accesso classista in base al quale ad essere avvantaggiato è chi ha più soldi da spendere per una o più abilitazioni, in barba al tanto decantato “merito”.
L’esperienza di chi ha frequentato questi corsi è poi sintomatica della loro utilità: fatti salvi pochi insegnamenti e poche università, tali percorsi sono stati definiti inutili e ridondanti. Siamo quindi di fronte a un tipo di formazione sommativo, più che realmente istruttivo o, per dirla diversamente, all’ennesimo titolo da comprare per evitare di restare indietro nelle graduatorie, col rischio di non lavorare.
Ma quindi, a chi servono realmente questi corsi di abilitazione? Non sono, certo, necessari a chi insegna per la prima volta, che, se da un lato è tenuto fuori dal numero chiuso, dall’altro potrebbe comunque essere destinatario di un contratto a tempo determinato, pur senza alcun tipo di formazione specifica alle spalle.
Non lo sono, neppure, per chi già insegna che, più che formarsi, è costretto a comprare un pezzo di carta dal valore discutibile. Di sicuro servono alle Università, sia telematiche che statali. Le prime, di anno in anno aumentano il loro giro di affari lucrando sui lavoratori precari; le seconde non disdegnano un’entrata aggiuntiva a fronte dei continui tagli di cui sono oggetto.
Dinanzi ad un siffatto quadro, i precari si sentono spaventati e ricattati. Spaventati perché non iscriversi ai percorsi abilitanti potrebbe costargli un incarico annuale di supplenza. Sotto ricatto, perché non essere abilitato significa essere scavalcato da colleghi che intanto l’abilitazione l’hanno conseguita. Come se non bastasse, questa riforma si inserisce in uno scenario già pesantemente caratterizzato da una indegna compravendita di titoli che vede precari e aspiranti docenti sottoposti a forti pressioni economiche per poter aggiungere punteggi per le Gps.
Con i corsi abilitanti questo meccanismo fa un ulteriore salto in avanti: un titolo non offre più solo un punteggio, ma l’iscrizione in prima fascia, con tutti i vantaggi lavorativi ad essa connessi. La prima e naturale conseguenza di ciò è stata la frammentazione dei precari, divisi da interessi particolari: i precari storici contro i colleghi di sostegno, i triennalisti contro i neolaureati, gli abilitati tramite concorso contro gli abilitati tramite corsi. Una tale balcanizzazione non ha fatto altro che facilitare una politica che trova buon gioco nella divisione di un corpo docente spesso già ampiamente anestetizzato. Diviso al suo interno, il precariato riceve un appoggio ancora minore dai docenti di ruolo, che pure dovrebbero solidarizzare con colleghi con cui si condividono classi e collegi. La situazione non migliora se guardiamo alla classe politica o ai grandi sindacati. Il tema del precariato, infatti, per troppo tempo non è stato argomento all’ordine del giorno nelle tavole rotonde dei diversi governi che si sono susseguiti, e solo recentemente sta faticosamente facendosi spazio all’interno di alcuni consessi.
In un clima di generale accettazione del precariato come modus operandi del mondo privato, la società, tutta, sembra aver interiorizzato la bontà di questo modello anche per il pubblico. Ciò che non si capisce è che quando innestato nel sistema educativo, il precariato lo danneggia dall’interno, indebolendolo e rendendo la trasmissione dei saperi meno efficace.
Invertire la rotta non è semplice. In un contesto di continui tagli, scuola e ricerca vedono costantemente erosi i propri mezzi. Tuttavia, una convergenza tra tutti i precari dell’istruzione non solo è necessaria, ma sembra a questo punto doverosa.
A essere sotto attacco non sono solo i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, ma lo stesso sistema dell’educazione. Non è solo un problema di classe ma una questione fondativa per una società sana. Ad unirci dovrebbe essere una ferma condanna nei confronti di un sistema classista e discriminatorio; della continua mercificazione dei saperi; dell’abuso dei contratti a tempo determinato nella scuola e nell’università, e la richiesta, a gran voce, di percorsi di stabilizzazione effettivi e ben definiti.
Non siamo solo noi ad esser resi precari, è precarizzata la cultura stessa, e la cultura non può e non deve essere precaria.
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