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Nel riconoscere la necessità di una legislazione nazionale sul fine vita, il Presidente Amato ha suggerito di “evitare di contrapporre due principi inconciliabili – l’autodeterminazione e l’indisponibilità della vita – per mettere al centro un fattore comune che è la pietà umana”. Che vuole dire? È davvero possibile risolvere ogni problema evitando una simile contrapposizione?
È anzitutto molto significativo che il Presidente Amato riconosca che autodeterminazione e indisponibilità della vita sono “principi inconciliabili”. E cioè che l’idea di una loro conciliazione non è sostenibile. In verità, nei casi in cui l’assistenza al suicidio è stata considerata non punibile, la Corte costituzionale sembra aver ipotizzato la possibilità che quei principi possano in qualche modo stare insieme. E ciò in nome della pretesa disponibilità della salute.
L’idea di una radicale inconciliabilità logica appare tuttavia più persuasiva. E ciò perché la disponibilità della salute, non diversamente dalla disponibilità della vita, è solo un quid facti e non un quid iuris. Proprio come il suicidio, anche il rifiuto delle cure (proporzionate) è solo un fatto del quale prendere atto, anche quando porti alla morte del paziente. Non si tratta di beni per la collettività. I valori sono la vita e la cura, non la morte e il rifiuto della cura. La disponibilità della salute non vale dunque a tenere insieme indisponibilità della vita e autodeterminazione.
Del resto, anche in occasione della presentazione delle dense riflessioni della Consulta scientifica del Cortile dei gentili, il Presidente Amato aveva già espresso con chiarezza il proprio scetticismo di fronte al “tentativo di mettere teoreticamente d’accordo” i due principi di autodeterminazione e di indisponibilità della vita.
Anche in quell’intervento il Presidente Amato aveva chiarito che quei principi “non dovrebbero essere messi esplicitamente in campo” davanti a circostanze nelle quali dovrebbe piuttosto essere dominante la pietà umana “che è insieme sentimento di solidarietà e fonte di azione solidale”. Aveva quindi sostenuto che, quando l’esiguità delle prospettive di vita e l’intensità delle sofferenze convincono il malato “che la sua vita in realtà è finita, che i suoi giorni futuri sono solo giorni di attesa sofferente della morte, che nessun progetto gli è più possibile se non quello di resistere, se ci riesce, alla sofferenza, solo a quel punto la sua richiesta di pietà, se arriva, riesce a diventare ineludibile, al di là dei principi”.
Ma che vuol dire che una “richiesta di pietà” del malato diviene “ineludibile”? Vuol dire che quella richiesta non può più essere elusa, che ad essa bisogna dar seguito, che è dunque necessario predisporre i mezzi affinché il malato possa darsi la morte attraverso l’autosomministrazione del farmaco letale. Bisogna, è necessario, si deve. Si tratta, insomma, di una condotta dovuta. L’“azione solidale” – per dirla col Presidente Amato – s’impone.
Ma di che tipo di necessità si tratta? Si tratta di una necessità pertinente al bonum externum? E perciò destinata ad assumere rilievo anche sul piano delle regole del vivere sociale? Si tratta, insomma, di un dovere giuridico? A prima vista potrebbe sembrare così. Il Presidente Amato, del resto, si dichiara favorevole a una legislazione nazionale che definisca con rigore le condizioni in cui la “richiesta di pietà” del malato diviene appunto “ineludibile”.
Invero, sempre il Presidente Amato osserva anche che la Corte costituzionale “ha sancito la non punibilità – a determinate condizioni – di chi aiuta un paziente a morire”. Ma esclude però che la Corte abbia anche riconosciuto un diritto al suicidio assistito. Sul piano giuridico, allora, neppure dovrebbe essere configurabile un obbligo di prestare assistenza all’altrui suicidio. Non vi è dubbio, infatti, che il diritto in questione dovrebbe ulteriormente qualificarsi come pretesa: una situazione elementare che è definita, appunto, dall’obbligo altrui di compiere l’azione che ne costituisce il contenuto.
Anche per il Presidente Amato, come per la Corte costituzionale, l’ineludibilità della richiesta del malato non rileva dunque sul piano dell’ordinamento. Non si tratta di necessità giuridica. Nessuno e in nessun caso può essere giuridicamente tenuto a prestare i mezzi affinché un malato si dia la morte. Ma allora perché si parla di una “richiesta di pietà… ineludibile”?
In realtà, quel che il Presidente Amato vuole dire è che la richiesta del malato vincola il singolo unicamente sul piano della coscienza. Ma è proprio per questa ragione che l’ordinamento deve astenersi dal sanzionare la condotta di chi l’abbia assecondata. Perché, appunto, si ritiene che quella richiesta s’imponga alla coscienza del singolo come “richiesta di pietà”.
Ora, però, a parte il fatto che ciascuno ha la propria coscienza, è chiaro che in questo modo, col venir meno del presidio penale, il principio di indisponibilità della vita è comunque vulnerato. E ciò in nome di un’etica individuale di matrice utilitaristica, che, in quanto giustifica la disattivazione della sanzione penale, l’ordinamento finisce comunque per fare propria. Ancorché non arrivi a riconoscerla come un bene per la collettività. Come si è detto, infatti, la “richiesta di pietà” del malato non assurge al rango di pretesa.
Con ciò però le contraddizioni non sono affatto superate. Tutt’altro. A una giustificazione – inadeguata – della compromissione dell’indisponibilità della vita fondata sull’idea della disponibilità della salute come quid iuris è semplicemente sostituita una diversa giustificazione – non meno inadeguata – fondata su un’etica utilitarista che appare difficilmente compatibile con l’antropologia personalista posta a fondamento del disegno costituzionale. E cioè sull’idea che, in certe condizioni, prestare assistenza all’altrui suicidio sia un atto di “pietà umana”, un’“azione solidale”.
In realtà, bisogna riconoscere, con il Presidente Amato, che i principi di autodeterminazione e di indisponibilità della vita non sono conciliabili. Ma allora bisogna anche prendere atto che l’idea per cui sarebbe possibile andare “al di là dei principi” mettendo “al centro la pietà umana” è solo una strategia comunicativa. La realtà è che, in casi ben circoscritti, si accetta che disporre della vita non deve più essere considerato un male per la collettività. Anche se non deve neppure essere considerato un bene. Almeno per ora.
Emanuele Bilotti
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