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Ogni regione si è fatta la sua legge urbanistica illudendosi di poter agire come un ducato indipendente. L’espressione “rigenerazione urbana”, che ormai insanamente corrisponde solo a fare delle migliorie edilizie e non a ribaltare il corpo urbano nella direzione della transizione ecologica e sociale che occorrerebbe, ha invaso il gergo della politica, e si è bruciata. Per uscire dalla trappola della questione urbana italiana serve una legge basata su alcuni punti certi
Le nostre città navigano senza bussola nel mare imperioso della globalizzazione che, negli ultimi vent’anni ha trasformato i caratteri della rendita urbana e fondiaria, il rapporto tra finanza e mercato immobiliare, spaccando territori e città, spogliando le aree interne, aggravando la tensione abitativa.
Il capitale finanziario impone i suoi tempi alle decisioni e ai mutamenti delle forma urbana; tempi che non possono essere quelle della democrazia, della partecipazione, della crescita integrata dei territori. Questo nodo sta venendo al pettine drammaticamente.
Sono processi mondiali, ma più gravi in Italia, dove non si riesce a innovare la legislazione per il governo del territorio, ad avere un ordinamento di governo adeguato per le metropoli, le città e le province, un sano sistema delle autonomie, una normativa efficace per la tutela e la sicurezza dei territori a rischio idrogeologico, a dare respiro alla dimensione pubblica delle città. In questa paralisi normativa tutto sfugge e ognuno fa quel che può, si organizza da solo, sottoponendo il Paese a spinte centrifughe che non sono forme di autonomia ma lacerazioni, strappi che possono tradursi in vere a proprie forme di dittatura urbana. Questo è il caso di Milano, ma non solo.
Milano ha varcato da anni gli impacci di una legge urbanistica morta e seppellita, la 1150 del 1942, che però è ancora vigente. Non ha atteso e ha fatto da sé ma, ritengo, troppo concedendo al totem di una semplificazione che oltre un certo limite diventa “dittatura urbana”.
Ogni Regione si è fatta la sua legge urbanistica illudendosi di poter agire come un ducato indipendente. L’espressione “rigenerazione urbana”, che ormai insanamente corrisponde solo a fare delle migliorie edilizie e non a ribaltare il corpo urbano nella direzione della transizione ecologica e sociale che occorrerebbe, ha invaso il gergo della politica, e si è bruciata. Non basta più nemmeno parlare di stop al consumo di suolo perché già da tempo la rendita e la speculazione si è spostata sul rinnovo urbano dal quale drena immensi plusvalori, ben superiori a quelli che otterrebbe dall’espansione su suoli vergini.
Valori che non restituisce se non in minima parte alle comunità, visto che le quote di oneri per le urbanizzazioni che si pagano in Italia sono le più basse e misere di tutta l’Europa. Serve invece un “equo uso del suolo e degli immobili”, un governo del territorio. Da questa complessità non si scappa se vogliamo che tutte le politiche (industriali, agricole, opere pubbliche, servizi sociali) non si impantanino nella Beresina di una urbanistica che produce solo ricorsi e contraddizioni. Fare una legge sulla “rigenerazione urbana”, magari condivisa con la destra, avrebbe il senso di una beffa.
Per uscire dalla trappola della questione urbana italiana serve una legge di principi moderna e democratica di “governo del territorio” basata su alcuni punti certi: sicurezza dei territori, tutela del suolo e delle componenti naturali, mobilità sostenibile, fiscalità urbana bilanciata per favorire le aree povere e tassare di più le aree di pregio, partecipazione popolare, centralità dello spazio pubblico, tutela storico-archeologica, grandi prestazioni architettoniche, dei materiali e degli impianti.
C’è una grande differenza tra una legislazione semplice e democratica e una semplificazione legislativa che oltre certi limiti diventa autoritaria. Questo è il bivio. Fissati questi principi invalicabili ogni Regione faccia le sue scelte ma dentro un quadro nazionale condiviso in questo perimetro e dotandosi di Agenzie pubbliche per le stime dei valori che intercorrono tra pubblico e privato nelle procedure di compartecipazione operativa per non rimanere buggerati e spogliati dalla rendita.
Infine, occorre dare alle grandi metropoli dei poteri di rango superiore e non solo amministrativo per affrontare con spalle forti la pressione dei grandi poteri che premono sulle città.
L’autonomia in Italia non vuol dire solo Regioni. Se non si affronta di petto questa materia, non avremo mai un serio programma di governo del paese.
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