Belinda Kazeem-Kaminski, vite rimosse dal colonialismo

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In un momento storico in cui l’Europa viaggia con l’elmetto e si allinea a una logica di guerra senza troppi ripensamenti, tornare sulla rimozione della memoria collettiva, foriera sempre di catastrofi, è una ottima esercitazione per sviluppare frammenti di pensiero critico.
Belinda Kazeem-Kaminski (Vienna, 1980) è un’artista austriaca di origini nigeriane che lavora intorno alle amnesie storiche, come quelle che riguardano la «nerezza» europea dovuta al colonialismo. Nella sua prima personale italiana presso Kunst Meran Merano Arte affronta il sistema missionario in Alto Adige e le sue responsabilità nella costruzione del rapporto coloniale tra Europa e Africa. E lo fa con un percorso emozionale, dove suoni, silenzi e immagini interrogano gli interstizi di una narrazione costellata di omissioni. La sua mostra (dal 16 marzo al 9 giugno) è il secondo progetto espositivo del programma triennale The Invention of Europe: a tricontinental narrative (2024-2027) curato da Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi, che scardina i confini di un’Europa abbarbicata nei suoi privilegi. Belinda Kazeem-Kaminski racconta le biografie di alcune bambine deportate a metà Ottocento (per essere convertite a forza), vite sepolte negli archivi a cui riconferisce una dignità umana.

In «Aerolectics» lei ripercorre le storie di ragazze strappate dalle loro case africane per essere evangelizzate e introdotte in una nuova cultura. Può dirci qualcosa su questo argomento?
Aerolectics si concentra sul ruolo del lavoro missionario in Alto Adige nella creazione di relazioni coloniali tra Europa e Africa. La mostra si basa sulla ricerca artistica condotta negli archivi del convento delle Orsoline di Brunico. Tuttavia, non direi che questa mostra sia semplicemente il risultato della mia ricerca: voglio piuttosto sottolineare che si tratta di una continuazione di argomenti su cui ho riflettuto – ad esempio l’apparente mancanza di comprensione o empatia nei confronti delle persone nere – e di un inizio. Avvertendo la vastità dell’argomento, ho deciso di concentrarmi su tre ragazze arrivate a Brunico l’11 gennaio 1855. Sono Asue, Gambra e Schiama (le bambine deportate furono battezzate in Europa e da quel momento cambiarono nome per entrare a far parte del corpo monastico delle suore, questi nomi sono probabilmente quelli che più si avvicinano agli originari, ma è un’attribuzione perché non se n’è trovata traccia certa nei documenti, ndr),

Qual è stato l’aspetto principale della colonizzazione europeo-tedesca in Africa?
Quando parliamo di colonizzazione europea in Africa dobbiamo procedere con accuratezza, cercando di restituire la complessità di questo ampio fenomeno globale e delle sue origini. Ogni stato nazionale ha operato in modo diverso, con varie strategie e in territori e tempi differenti. Nodi e conflitti tra le storie coloniali in Africa esistono; dobbiamo considerarli come il sintomo di un’unica matrice: la brama di risorse naturali e di forza lavoro a basso costo. La mostra è il secondo episodio del programma curatoriale a cura di Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi: prende spunto dalla formula «L’invenzione dell’Africa» del filosofo congolese Valentin Y. Mudimbe per evidenziare come quell’idea sia un’invenzione moderna, enunciata proprio attraverso il colonialismo.

Può parlarci della «tempesta artistica» come elemento simbolico che testimonia la furia della colonizzazione e lo scontro tra mondi diversi?
Mentre le altre ragazze si sono apparentemente adattate alla vita del convento, Asue era nota per il suo temperamento impulsivo. Nei registri, viene paragonata a una tempesta che non poteva essere placata dalle suore. La mostra evoca questa bufera, facendo riferimento alle cosmologie e ai miti Yoruba e Kongo. I simboli degli elementi naturali e della tettonica rappresentano gli attriti derivanti dall’incontro tra la politica, le ideologie e gli insegnamenti morali modellati dal cristianesimo con le cosmologie e i sistemi di comprensione del mondo extraeuropei.

Cosa significa portare alla luce vicende biografiche rimaste invisibili per anni, come quella di Asue?
Disotterrarle richiede un confronto con i resti della storia coloniale. È un processo che ci invita ad affrontare i riverberi che queste vicende evocano. Si tratta di creare un ambiente in cui i cosiddetti fantasmi del passato possano manifestarsi. Per me, Asue, Gambra, Schiama non sono fantasmi. Sono state relegate a «note a piè pagina» negli archivi, che possono essere facilmente scartate e dimenticate. Ma cosa succede quando le invitiamo a entrare, quando scegliamo di affrontare un passato? La mia è una pratica ancestrale riparativa che onora l’esistenza di Asue e delle altre, senza ridurle a soli soggetti di ricerca. In questo senso, il mio pubblico principale è sempre la figura ancestrale. Non sono una storica, non mi sento vincolata all’archivio né ai fatti. Mi prendo la libertà di speculare e di chiedermi cosa sarebbe accaduto «se».

Quali autrici ispirano la sua pratica artistica?
Una delle pensatrici è Christina Sharpe, studiosa e scrittrice afroamericana. Nel 2016 ha pubblicato il libro In the Wake: On Blackness and Being che, utilizzando la metafora della «scia», parla di come il passato in corso si riverberi nelle vite delle persone nere.



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