Raccolti agricoli e microplastiche: il legame che non conosci

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Mentre i nostri politici, troppo impegnati coi soldatini, continuano a rimandare le decisioni sui trattati globali sulla plastica, le microplastiche hanno già iniziato la loro silenziosa invasione dei raccolti agricoli mondiali. Non servono carri armati o soldati per questa guerra: bastano particelle inferiori ai cinque millimetri, invisibili a occhio nudo ma letali per la fotosintesi. Un nuovo studio pubblicato su PNAS ha quantificato l’impatto, e i numeri sono da brivido: fino al 18% di riduzione della capacità fotosintetica nelle colture terrestri. Tradotto in termini pratici? Immaginate di perdere quasi un quinto del raccolto globale di grano, riso e mais nei prossimi 25 anni. Non per siccità, non per inondazioni, non per parassiti. Ma per minuscoli frammenti di quella plastica che continuiamo a produrre come se non ci fosse un domani. E forse, a questo punto, non ci sarà davvero.

L’onnipresenza delle microplastiche nei raccolti agricoli

Le microplastiche sono ormai come quei parenti fastidiosi che si presentano a ogni festa di famiglia: non le hai invitate, ma eccole lì, ovunque. Nell’aria che respiriamo, nel suolo che coltiviamo, nell’acqua che beviamo, persino nel cibo che ingeriamo. Questi minuscoli frammenti di plastica degradata hanno raggiunto ogni angolo del pianeta, dall’Antartide ai nostri cervelli. Non sto esagerando: li hanno trovati davvero nella placenta.

Ma la vera novità, quella che dovrebbe farci sussultare sulla sedia, è che questi invasori microscopici stanno ora interferendo con uno dei processi più fondamentali ed essenziali della vita sul pianeta: la fotosintesi. Quel miracolo biochimico che permette alle piante di trasformare luce solare, acqua e anidride carbonica in ossigeno e zuccheri. Quella magia verde che sostiene praticamente ogni catena alimentare sulla Terra. Inclusi i nostri preziosi raccolti agricoli.

È davvero spaventoso.

Così commenta Marcus Eriksen, scienziato marino del 5 Gyres Institute, un’organizzazione no-profit che si occupa di ricerca sull’inquinamento da plastica. Posso tranquillamente sottoscrivere anch’io questa affermazione. Perché quando qualcosa minaccia la fotosintesi, sta minacciando le fondamenta stesse della vita come la conosciamo.

I numeri che dovrebbero svegliarci (e invece)

I ricercatori hanno scoperto qualcosa che farebbe impallidire qualsiasi apocalittico: la presenza di microplastiche può ridurre la fotosintesi fino al 12% in media. Sembra una percentuale piccola? Pensateci meglio. Nel mondo dei raccolti agricoli, questo si traduce in una riduzione che può oscillare tra il 6 e il 18%. Nelle piante marine come le alghe parliamo di un 2-12%, mentre nelle alghe d’acqua dolce tra il 4 e il 14%.

La presenza di microplastiche ormai non sorprende più. Ciò che sorprende è il livello dell’impatto. Il fatto che stanno sabotando così efficacemente uno dei meccanismi più cruciali per la nostra sopravvivenza. Con gli attuali tassi di produzione mondiale di plastica (e la conseguente esposizione alle microplastiche), gli agricoltori potrebbero assistere a una perdita di rendimento annuale del 4-13,5% nelle colture base come mais, riso e grano nei prossimi 25 anni. Pensate alla portata di questi numeri quando li proiettate su scala globale, considerando che questi sono i cereali che sfamano la maggior parte dell’umanità.

Un’apocalisse silenziosa per l’economia alimentare

Non c’è solo il grano a rischio in questa guerra invisibile. La produzione di frutti di mare potrebbe crollare fino al 7% man mano che gli ecosistemi acquatici perdono le alghe che formano la base delle loro reti alimentari. È come togliere i mattoni dalle fondamenta di un edificio e aspettarsi che resti in piedi. Cosa può andare storto?

L’impatto sull’economia globale sarebbe devastante, per non parlare dell’aggravamento dell’insicurezza alimentare per centinaia di milioni di persone. E tutto questo in un mondo già alle prese con cambiamenti climatici, conflitti e disuguaglianze crescenti nell’accesso al cibo. Ciò che trovo particolarmente preoccupante è che stiamo parlando di un futuro non così lontano. Non è fantascienza, non è una distopia ambientale ambientata nel 2100. Stiamo parlando dei prossimi 25 anni. Un periodo in cui molti di noi saranno ancora qui, a chiedersi perché diavolo non abbiamo agito quando avevamo ancora tempo. E i nostri figli?

Se non agiamo ora, nei prossimi 70-100 anni, vedremo danni ecologici su scala molto più ampia.

Parole di Richard Thompson, biologo marino specializzato nell’inquinamento da microplastiche presso l’Università di Plymouth in Inghilterra. Parole che suonano come una condanna a morte per gli ecosistemi che conosciamo, se continuiamo sulla strada attuale.

Il legame dimenticato con la crisi climatica

La diminuzione della fotosintesi potrebbe anche ostacolare gli sforzi per combattere il cambiamento climatico. Questo è un aspetto che mi fa letteralmente infuriare, perché stiamo parlando di un doppio colpo: non solo i raccolti agricoli diminuiscono, ma perdiamo anche alleati fondamentali nella lotta contro il riscaldamento globale.

Quando le piante fotosintetizzano, assorbono anidride carbonica dall’aria nei loro tessuti e la immagazzinano sotto forma di zuccheri. La maggior parte dei modelli climatici presuppone che le piante saranno in grado di assorbire il carbonio atmosferico a un ritmo costante nei prossimi decenni. Ma se nelle foreste, nelle praterie e nei letti di kelp viene sequestrato meno carbonio di quanto i ricercatori avessero previsto, mitigare il riscaldamento diventerà ancora più difficile.

È un circolo vizioso perfetto, nella sua perversa logica: produciamo plastica (da combustibili fossili), la plastica si degrada in microplastiche, le microplastiche riducono la capacità delle piante di assorbire CO₂, la CO₂ in eccesso accelera il cambiamento climatico, il cambiamento climatico stresso ulteriormente gli ecosistemi. Abbiamo progettato il sistema perfetto per autodistruggerci.

L’impatto sulla salute che va oltre i raccolti agricoli e le piante

Le microplastiche non si limitano a disturbare la fotosintesi nei raccolti agricoli. Oltre a questo, sono state collegate a problemi di salute negli esseri umani e in altri animali. Sono associate a un aumento del rischio di attacchi cardiaci e ictus nelle persone. Hanno dimostrato di ostacolare la crescita e la riproduzione in numerose specie.

Siamo di fronte a una minaccia che attraversa l’intero spettro della vita sul pianeta: dalle piante microscopiche agli esseri umani, passando per ogni anello delle catene alimentari. È un inquinante sistemico, nel senso più letterale del termine. Contaminando le piante, contaminiamo tutto ciò che si nutre di esse, in un effetto domino che risale fino a noi.

La cosa più frustrante? Abbiamo prodotto noi questo problema. Non è un meteorite dallo spazio, non è un fenomeno naturale inevitabile. Sono decenni di produzione sconsiderata di plastica usa e getta, di gestione inadeguata dei rifiuti, di mancanza di responsabilità da parte delle aziende produttrici. È un problema interamente umano, che richiede soluzioni umane.

La speranza in numeri concreti

Il nuovo studio offre anche un barlume di speranza, ma richiede azione immediata. Il team di ricerca stima che riducendo la quantità di particelle di plastica attualmente presenti nell’ambiente di appena il 13%, si potrebbe mitigare la perdita di fotosintesi del 30%. Un piccolo sforzo per un grande risultato.

Gli sforzi per sviluppare un accordo internazionale sulla plastica sono in corso dal 2017. Ma i più recenti negoziati guidati dalle Nazioni Unite, tenutisi a Busan, in Corea del Sud, si sono conclusi senza una risoluzione. E questo mi fa impazzire. Per pagare le lobby delle armi i soldi si trovano subito: e nel frattempo, i raccolti agricoli continuano a soffrire, le microplastiche continuano ad accumularsi, il problema peggiora ogni giorno.

Non possiamo permetterci di aspettare che tutti i paesi si mettano d’accordo. Dobbiamo agire ora, a livello individuale, comunitario, nazionale. Ridurre l’uso di plastica monouso, migliorare i sistemi di raccolta e riciclaggio, investire in alternative biodegradabili. Sono tutte azioni che possiamo intraprendere mentre la diplomazia internazionale fa il suo lento corso.

Un futuro incerto per i raccolti agricoli mondiali

Mi chiedo spesso come sarà il mondo tra 25 anni, quando i miei nipoti saranno giovani adulti. Leggendo studi come questo, l’immagine che si forma è tutt’altro che rassicurante. Immagino scaffali dei supermercati meno forniti, prezzi del cibo alle stelle, tensioni sociali crescenti per l’accesso alle risorse alimentari.

La riduzione dei raccolti agricoli del 4-13,5% potrebbe sembrare gestibile per i paesi ricchi, ma per le comunità già ai margini della sicurezza alimentare rappresenterebbe una catastrofe. E non dimentichiamo l’impatto sul bestiame che si nutre di queste colture, aggiungendo un altro livello di complessità e potenziale perdita. Quello che mi lascia davvero perplesso è come continuiamo a trattare questa come una “possibile” minaccia futura, quando in realtà è già in corso. Le microplastiche sono già nei nostri campi, nelle nostre acque, nei nostri corpi. La fotosintesi è già compromessa. Non stiamo parlando di prevenire un problema; stiamo parlando di mitigare un disastro in corso.

L’urgenza di un cambio di rotta

Il tempo delle mezze misure è finito da un bel po’. Abbiamo bisogno di un trattato globale sulla plastica con obiettivi vincolanti e ambiziosi. Abbiamo bisogno di ripensare completamente il nostro rapporto con i materiali usa e getta. Abbiamo bisogno di investimenti massicci nella ricerca di alternative sostenibili e in tecnologie per rimuovere le microplastiche già presenti nell’ambiente.

Ma soprattutto, abbiamo bisogno di un cambio di mentalità. Di smettere di pensare alla plastica come a un materiale conveniente e iniziare a vederla come ciò che è diventata: una minaccia esistenziale per i nostri raccolti agricoli e per la vita come la conosciamo. Che senso ha preoccuparsi dell’intelligenza artificiale, dello spazio, delle criptovalute, quando potremmo non avere abbastanza cibo da mettere nei piatti? Perché investiamo miliardi in tecnologie di lusso mentre il nostro sistema alimentare viene silenziosamente sabotato da particelle più piccole di un chicco di sabbia?

La circolarità di un destino annunciato

Ironicamente, quelle stesse particelle di plastica che ora minacciano i nostri raccolti agricoli spesso derivano da prodotti progettati per l’agricoltura: teli di plastica per serre, sistemi di irrigazione, imballaggi per fertilizzanti e pesticidi. È come se il serpente si stesse mangiando la coda. L’agricoltura moderna, dipendente dalla plastica, sta avvelenando la sua stessa capacità di produrre cibo.

Mi viene in mente l’immagine in “copertina” di questo articolo: teli di plastica che circondano giovani piante di zucchine. Una pratica comune in agricoltura, progettata per proteggere le colture, ma che potrebbe lentamente avvelenarle. Quanta ironia crudele c’è in questo? Proteggere per distruggere. Le microplastiche, diversamente da noi, non fanno rumore. Sono il nemico perfetto: invisibile, paziente, implacabile. E ora sappiamo che stanno spegnendo, lentamente ma inesorabilmente, la luce della fotosintesi che alimenta i nostri raccolti.

Torniamo a quei politici del primo paragrafo, quelli “troppo impegnati coi soldatini”. Forse dovrebbero ricordare che tutte le armi del mondo non servono a nulla se non c’è cibo da mangiare. Che tutte le strategie geopolitiche crollano di fronte a popolazioni affamate. Che tutta la ricchezza accumulata non può comprare raccolti sani in un mondo avvelenato. E mi domando quanti di loro stiano davvero ascoltando gli scienziati che ci avvertono di questa minaccia silenziosa ai nostri raccolti agricoli. Mi domando quanti di loro abbiano il coraggio di affrontare le grandi aziende produttrici di plastica invece di riceverne i finanziamenti per le campagne elettorali.

E così, mentre i grandi pezzi di plastica nell’ambiente continuano a degradarsi in microplastiche, il conto alla rovescia per i nostri raccolti è già iniziato. La domanda non è più “se” ma “quanto gravemente” saremo colpiti. E la risposta, purtroppo, sembra essere: molto più di quanto osiamo immaginare.



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