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REGGIO EMILIA – Hanno superato le vecchie contrapposizioni e lavato via il sangue. Nel nome degli affari hanno cancellato i morti della guerra di ‘ndrangheta e ora si spartiscono l’Emilia-Romagna. I Grande Aracri e I Dragone non sono più nemici. I clan che si sparavano per strada a colpi di bazooka ora siedono allo stesso tavolo per mangiarsi Reggio Emilia, Parma e Modena. La pax mafiosa è raccontata nell’ultima inchiesta della Dda di Bologna che ha portato a 5 arresti. Nel mirino dell’indagine Ten ci sono complessivamente 20 persone e restituisce una spaccato uno spaccato dai tratti inediti. La pm Beatrice Ronchi ha messo assieme i fili e scritto nero su bianco che gli Arabia avevano da tempo riallacciato i rapporti con le seconde file dei Grande Aracri, falcidiati da arresti ed ergastoli. Assieme trafficavano in armi, facevano estorsioni, truffe, ricettazione.
Alla guida della nuova cellula di ‘ndrangheta c’era la famiglia di Pino Arabia (58 anni), fratello di Turuzzu (Salvatore Arabia), ammazzato dai Grande Aracri nel 2003 a Steccato di Cutro, in Calabria. La sorella di Pino e Turuzzu, ha sposato prima Salvatore Dragone, morto a Carpi nel 1991, e poi Raffaele Dragone, ammazzato nel 1999. Entrambi figli del boss Antonio Dragone, acerrimo nemico di Nicolino Grande Aracri, mano di gomma. Pino Arabia, uscito di carcere nel 2014, dopo gli arresti di “Aemilia”, già nel 2019 era operativo nel reggiano.
Incontri, riunioni, nuove affiliazioni e la pax con i Grande Aracri gli hanno consentito di crescere fino a ricoprire un ruolo di primissimo piano nella ‘ndrangheta emiliano-romagnola. Con lui i suoi nipoti, il genero ed una nuova generazione di soldati dei clan calabresi. Ed è così che la Dda di Bologna, guidata dal procuratore Francesco Caleca, e la procura di Reggio Emilia guidata dal procuratore Gaetano Paci, hanno scoperto l’origine di alcune delle più recenti intimidazioni, dei danneggiamenti, delle frodi fiscali e delle estorsioni.
Una pace, comunque armata, quella con i Grande Aracri. Alcuni pentiti spiegano infatti che gli Arabia “nonostante abbiano avuto delle morti (durante la guerra di ‘ndrangheta della fine anni ‘90, primi 2000, ndr), degli arresti, non si sono mai sottomessi, hanno sempre navigato con i giovani”. Anche per questo Pino Arabia, nel 2004 doveva essere ammazzato. C’era già un piano ed erano stati decisi i killer, poi però venne arrestato e “saltò tutto”, dice Antonio Valerio, sicario dei cutresi che doveva far parte del gruppo di fuoco.
In carcere “U nigru”, come veniva chiamato Arabia, ha lavorato per gestire gli affari anche da dietro le sbarre. All’uscita, ha consolidato la posizione e, se anche il progetto di ucciderlo non è mai stato del tutto messo nel cassetto, la sua ascesa gli ha per molti versi salvato la vita. Gli avversari del tempo, hanno infatti riposto le armi nel nome di affari condivisi.
Spiega il procuratore facente funzioni di Bologna, Caleca: “Quella colpita oggi è una sorta di unità organizzativa perfettamente inserita nella cosca radicata e presente a Reggio Emilia che ha un suo nucleo familiare genetico e vede nella sua composizione, da un lato, il superamento di vecchie contrapposizioni che c’erano state in passato tra i Dragone e i Grande Aracri e, dall’altro, evidenzia una capacità rigenerativa della cosca che non solo continua ad essere presente, ma arruola nuove leve”. L’altro aspetto venuto alla luce ed evidenziato da Caleca, “è la smentita del fatto che quando si parla di mafie al Nord, si dice abbiano perso quell’aspetto militare, truce e violento per diventare imprenditrici. Questa inchiesta dimostra come il cambiamento sia soltanto epidermico, perché la sostanza profonda della capacità intimidatoria permane, venendo realizzata concretamente”.
Spiega la pm della Dda Beatrice Ronchi: “In Emilia le antiche contrapposizioni che avevano portato alla guerra sono state messe da parte e superate per seguire l’obiettivo comune e principale della struttura mafiosa che è quello dell’arricchimento massimo e comune, al di là dei rancori, delle antipatie e dei vecchi conflitti”.
E’ l’ennesima prova del fatto che quando i clan non sparano è perché gli affari vanno bene: in Calabria come in Emilia, a Cutro come a Reggio Emilia.
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