Myanmar, la sfida delle elezioni tra guerra civile e opposizione decimata

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La realtà del Paese del sud-est asiatico si presenta «molto frammentata», dopo il colpo di Stato militare del 2021 e nel pieno di una guerra civile che ha già provocato più di 6.300 civili e sfollato oltre 3,5 milioni di persone. Secondo l’Onu nel corso del 2025 circa 20 milioni di abitanti, più di un terzo del totale, avranno bisogno di aiuti umanitari

Giada Aquilino – Città del Vaticano

Quattro anni dopo che i militari hanno preso il potere con un colpo di stato che ha estromesso il governo democraticamente eletto, la situazione in Myanmar si presenta «molto frammentata», in un Paese su cui gravano gli effetti politici, economici e sociali della guerra civile che insanguina varie parti del suo territorio. Matteo Fumagalli, docente di Relazioni internazionali all’Università di St. Andrews in Scozia, inquadra così la nazione del sud-est asiatico, proprio quando il capo della giunta di Naypyidaw, il generale Min Aung Hlaing, ha dichiarato che le elezioni generali si terranno entro 10 mesi, tra dicembre prossimo e gennaio 2026.

Ascolta l’intervista con Matteo Fumagalli

Quello delle elezioni è un tema particolarmente caldo nel Paese del sud-est asiatico: la Costituzione birmana del 2008 richiede alle autorità di organizzare il voto entro sei mesi dalla revoca dello stato di emergenza. Ma, dal colpo di Stato del 1° febbraio 2021, tale provvedimento è stato di fatto sempre prolungato. «Queste elezioni sono state annunciate più volte ma — osserva Fumagalli — nel corso degli ultimi anni i militari hanno perso il controllo» di molta parte del Paese. «Anche se riuscissero a svolgere le consultazioni, come intendono fare, queste potrebbero svolgersi di fatto in meno della metà del territorio: al momento la giunta militare ne controlla intorno al 40-45%. I risultati dunque sarebbero perlomeno problematici, sia come partecipazione popolare sia come legittimità del voto, dato che nel 2023 i militari hanno introdotto una legislazione che impedisce ai partiti di opposizione di partecipare a nuove elezioni».

La guerra tra esercito e milizie etniche

L’annuncio di una prossima tornata elettorale arriva mentre il Myanmar è sconvolto da una sanguinosa guerra civile tra l’esercito, che ha subito pesanti perdite, e le milizie etniche di vaste aree del Paese. La presa del potere da parte dell’esercito sul governo eletto di Aung San Suu Kyi ha incontrato una diffusa opposizione popolare che ha innescato, o ridestato, varie resistenze armate. La maggior parte dei leader del partito della Lega nazionale per la democrazia di Suu Kyi è stata arrestata. La stessa premio Nobel per la pace sta scontando pene detentive per un totale di 27 anni. «Non c’è peraltro un’opposizione birmana al singolare — fa osservare l’analista — per il semplice motivo che parlare di Myanmar al momento come uno Stato singolo non riflette la complessa situazione sul terreno. Ci sono diverse situazioni specifiche nei 6-7 teatri di conflitto, per cui riuscire a creare una coalizione che includa la Lega nazionale per la democrazia, o meglio chi succederà a questo partito che in pratica è stato “bandito” dai militari, e organizzazioni affiliate a movimenti militari è risultato molto difficile in questi anni».

A partire dall’ottobre del 2023 una coalizione composta da tre gruppi etnici armati, l’Arakan army — «che controlla l’80-85%» dello Stato Rakhine, in cui vive la minoranza musulmana perseguitata dei Rohingya e «dove l’organizzazione armata ha creato delle istituzioni parastatali che forniscono alcuni servizi alla popolazione» — il Myanmar national democratic alliance army, appartenente all’etnia Kokang, e il Ta’ang national liberation army attivo nello Stato di Shan hanno lanciato una nuova offensiva contro le autorità di Naypyidaw. Conquistate basi militari e città strategiche. Nella parte orientale, prosegue il docente della St. Andrews, operano «altre organizzazioni, come l’Unione nazionale Karen o l’Esercito dello Stato unito Wa, al confine con la Thailandia o con la Cina: anche lì esistono istituzioni parastatali e alcune parti di questa regione sono contestate, tra militari e tali organizzazioni. Si riscontra una situazione simile pure al nord, nello Stato del Kachin, al confine con la provincia dello Yunnan, in Cina. Mentre invece nella zona centrale, del delta dell’Irrawaddy, a Yangon e verso Mandalay e la capitale Naypyidaw, la situazione è più fluida: qui la forza dei militari è più consistente, anche se negli ultimi anni si è assistito a un’escalation di violenza».

Gli altri Paesi

La Cina ha recentemente mediato un accordo di cessate-il-fuoco tra la giunta golpista e uno dei movimenti attivi nel nord-est. «La Cina è l’unico Paese con una reale possibilità di intervenire. Quello che interessa a Pechino — riferisce Fumagalli — è che i suoi interessi, il controllo economico del sud-est asiatico, delle pipelines nel Mar delle Andamane e altre influenze su miniere e terre rare non vengano messi a repentaglio dalla violenza sul terreno». Al di là dell’ambito più regionale, «c’è la Russia che sostiene diplomaticamente la giunta birmana, con ottimi rapporti a livello economico, energetico, di difesa e cooperazione militare ma Mosca è occupata altrove (in Ucraina, ndr). E anche l’Occidente».

L’emergenza umanitaria e la preghiera del Papa

Eppure, secondo l’Onu, le violenze hanno ucciso più di 6.300 civili, provocato lo sfollamento di oltre 3,5 milioni di persone e fatto sì che nel corso del 2025 circa 20 milioni di persone, più di un terzo della popolazione del Paese, avranno bisogno di aiuti umanitari. Il Papa, anche nel testo preparato per l’Angelus di domenica scorsa, ha pregato affinché si continui a «invocare il dono della pace» anche per il Myanmar. «È importantissimo non spegnere l’attenzione su questa nazione, perché ci sono questioni di sicurezza alimentare che rappresentano una emergenza quotidiana per milioni di persone. Il Myanmar era un Paese povero anche prima del 2021, però la pandemia, il colpo di Stato, le varie guerre che si sono susseguite hanno acuito i problemi, per cui la risposta dovrebbe essere immediata. Ma la realtà è che mancano i fondi e la situazione probabilmente non migliorerà a breve, visto che quelli che sono i maggiori donors internazionali, come gli Stati Uniti, stanno chiudendo le loro agenzie di cooperazione allo sviluppo».



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