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Nel giro di un mese, fuori dai nostri confini, arrivano due episodi che ci parlano: prima l’esternazione di Donald Trump che, in occasione dell’incidente aereo a Washington del 29 gennaio, ha dichiarato che «la Federal aviation administration ha assunto disabili gravi» quando invece «solo le persone con l’intelletto più elevato possono fare i controllori». Poi dall’Argentina è arrivato il provvedimento del governo guidato da Javier Milei che ha riesumato definizioni offensive delle persone con disabilità cognitive che pensavamo finalmente bandite dal discorso pubblico: «Ritardato», «idiota», «imbecille».
E nel nostro paese? Ne abbiamo discusso con Valentina Tomirotti, giornalista mantovana e attivista in sedia a rotelle, con la quale gira in lungo e in largo l’Italia per raccontare la sua sfida contro i pregiudizi sulla disabilità. È conosciuta da anni grazie al suo blog Pepitosa.
In Italia dal 1° gennaio 2025 è operativa l’Autorità garante nazionale dei diritti delle persone con disabilità, un organo istituito per combattere ogni forma di discriminazione e garantire i diritti sanciti dalla Convenzione Onu. I membri, nominati dai presidenti di Camera e Senato, sono tutti maschi. Può spiegarci perché questo è un problema per le persone con disabilità?
Perché solleva un problema di rappresentanza e inclusività. Le persone con disabilità, così come la società nel suo insieme, sono un insieme eterogeneo: comprendono donne, uomini, giovani, anziani, persone di diverse culture e orientamenti. Escludere le donne da una posizione così cruciale significa non rappresentare adeguatamente una parte significativa di questa comunità, che vive specifiche esperienze di discriminazione legate al genere, oltre che alla disabilità.
Le donne con disabilità affrontano spesso una “doppia discriminazione”: per il loro genere e per la loro condizione. Questo richiede una sensibilità e una comprensione che difficilmente può essere garantita da un organo che non include alcuna figura femminile. Non si tratta solo di simbolismo, ma di garantire che tutte le voci, le esperienze e le prospettive siano rappresentate nelle decisioni che influenzeranno milioni di persone. Un’Autorità Garante che non rispecchia questa diversità rischia di essere percepita come poco inclusiva, minando la fiducia che le persone con disabilità dovrebbero riporre in essa. È essenziale che ogni organo istituzionale rifletta la pluralità della società per poter essere realmente efficace nella promozione dei diritti di tutti.
A proposito di politica, sono passati quasi tre anni da quando Giorgia Meloni ha scelto Alessandra Locatelli come ministra senza portafoglio della Disabilità. Può dare un giudizio sulle politiche portate avanti dalla ministra fino a oggi?
Devo dire che in questi tre anni la ministra Locatelli ha sicuramente saputo mantenere un profilo coerente: basso, quasi invisibile, se non per girare di evento in evento dietro a nastri da tagliare a favore di obiettivo fotografico. Non ho percepito rivoluzioni, né tantomeno un cambio di passo nelle politiche per la disabilità. A parole, l’attenzione sembra esserci, ma nei fatti? Siamo ancora qui a parlare di barriere architettoniche come se fosse un tema futuristico e di inclusione come se fosse una cortesia, non un diritto. Forse il vero successo è stato dimostrare che si può essere ministri senza portafoglio… e senza impatto, con il silenzio come strategia politica.
Quali sono le misure più urgenti di cui dovrebbe farsi carico questo governo?
La parola al centro dovrebbe essere “autonomia”, da creare e da garantire a 360 gradi. Le misure più urgenti che il governo dovrebbe adottare per il mondo della disabilità riguardano innanzitutto l’accessibilità universale, intesa non solo come eliminazione delle barriere architettoniche, ma anche come accesso a scuola, lavoro, cultura e trasporti. Bisogna garantire che tutti abbiano gli stessi diritti di partecipazione e autonomia. Un’altra priorità è l’inclusione lavorativa, che richiede politiche concrete e incentivi per le aziende, insieme a percorsi di formazione dedicati che valorizzino le competenze delle persone con disabilità.
Serve poi un intervento deciso su assistenza e servizi socio-sanitari, con maggiori risorse per supportare famiglie e caregiver, introducendo servizi di domiciliarità efficienti e garantendo che la disabilità non sia mai un motivo di isolamento o impoverimento. L’argomento disabilità che ricade nella sanità o welfare regionale è un gravissimo errore di merito: perché il divario tra un territorio e l’altro è enorme e motivo di discriminazione concreta che ricade nel quotidiano. Infine, è fondamentale costruire una cultura dell’inclusione, partendo dall’educazione nelle scuole, per combattere lo stigma e promuovere una società in cui la disabilità non abbia un “mondo a parte”.
Questo governo ha anche un ministero per la Natalità. Il tema della maternità per le persone con disabilità che spazio occupa nel discorso pubblico?
Il ministero per la Natalità. Suona bene, vero? Peccato che, quando si parla di maternità per le persone con disabilità, lo spazio nel discorso pubblico è pressoché inesistente. Forse non è abbastanza “instagrammabile” o “patriottico” per rientrare nei radar di chi pensa che basti un hashtag per rilanciare la natalità. Per le persone con disabilità che desiderano essere genitori, il vero ministero è quello delle barriere: barriere culturali, barriere nei servizi, barriere nei pregiudizi. Nessuno si preoccupa di come garantire accesso a supporti adeguati, percorsi inclusivi o di come abbattere lo stigma che vede la disabilità come incompatibile con la genitorialità.
Perché occuparsi di tutto questo, quando puoi fare spot sull’”Italia che cresce”? Il problema è che un ministero così concepito non fa altro che ignorare realtà complesse, come se la natalità fosse solo una questione di incentivi economici e non di diritti, inclusione e rispetto per tutte le famiglie. Sarebbe interessante vedere questo ministero prendere in mano anche il tema della genitorialità per le persone con disabilità. Ma forse è chiedere troppo: dopotutto, è più facile continuare a ignorare chi non rientra nell’identikit perfetto di una società che, spoiler, non esiste.
Parliamo di rappresentazione. Lei è una giornalista molto attenta alle questioni intersezionali. Che spazio occupa il corpo non conforme sui media tradizionali? E cosa si potrebbe fare di più?
Ancora troppo poco spazio. Quando è rappresentato, spesso lo è attraverso stereotipi: la narrazione della “persona speciale” che compie imprese straordinarie o, al contrario, quella pietistica che fa leva sull’emotività del pubblico. Questi racconti limitano la comprensione della realtà e non restituiscono la complessità e la normalità della vita di chi vive con una disabilità. I corpi non conformi sono corpi politici. Parlano di inclusione, di accessibilità, di diritti. La loro rappresentazione dovrebbe essere più autentica, quotidiana e integrata, e non relegata a occasioni straordinarie o commemorative.
Serve una narrazione che racconti la diversità come parte integrante della società, senza il bisogno di “giustificare” o spettacolarizzare l’esistenza di queste persone. Per fare di più, occorre iniziare dall’interno del sistema mediatico: coinvolgere più persone con disabilità non solo come oggetto della narrazione, ma come creatrici di contenuti, giornaliste, registe, scrittrici. È necessario anche formare i professionisti del settore sulla diversità e sull’inclusione, sensibilizzandoli su come rappresentare in modo rispettoso e veritiero le persone con disabilità. Infine, è importante ampliare il linguaggio visivo e narrativo, includendo più storie, più voci, più esperienze che non si conformino ai canoni tradizionali.
Non si è parlato abbastanza sui quotidiani dello slittamento della “riforma della disabilità”. Può farci una sintesi di quello che sta succedendo?
L’autodeterminazione delle persone con disabilità non è un’opzione, né una concessione: è un diritto. Un diritto sancito dalla legge delega 227/2021, che avrebbe dovuto portare a una riforma radicale dei servizi per la disabilità, spostando risorse e potere decisionale nelle mani delle persone stesse, permettendo loro di costruire il proprio progetto di vita. Eppure, oggi ci troviamo davanti all’ennesima beffa: una sperimentazione di un anno, che ora il governo vuole prorogare fino alla fine del 2026. Due anni in più di attesa, di incertezze, di possibilità che la riforma venga svuotata di significato, mentre i finanziamenti continuano ad alimentare le stesse strutture istituzionalizzanti che dovrebbero essere superate.
Ogni rinvio, ogni ostacolo burocratico, ogni dilazione temporale all’attuazione della riforma non è solo una questione tecnica, ma una precisa scelta politica. Se le risorse continuano a confluire verso le strutture anziché verso le persone, significa che il cambiamento tanto annunciato resta solo sulla carta. La riforma non può essere un compromesso tra diritti e interessi economici. Se il governo sceglie di proteggere gli interessi economici, anziché garantire la libertà di scelta alle persone con disabilità, dovrà assumersene la responsabilità.
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