Il Vaticano e la globalizzazione

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In questo nostro pianeta dove la crescita della presenza umana è sempre più imponente, soprattutto nei continenti dove l’organizzazione cattolica non è radicata, il Vaticano oltre ad essere Chiesa universale ha deciso di diventare anche Chiesa globalizzata poiché vuole continuare ad essere rilevante. E questa è diventata la priorità.

Il papato di Bergoglio ha impresso una spinta formidabile a questa scelta, anche se questo diverso tratto geopolitico vaticano non nasce con il papato Bergoglio ma inizia molto prima. Il decreto del Concilio Vaticano II Ad Gentes e la successiva Evangelii nuntiandi di Paolo VI lanciano la nuova linea: riprogrammare l’evangelizzazione nel mondo. Papa Wojtyla l’ha interpretato nella sconfitta del comunismo ateo dei paesi del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica, Benedetto XVI, per il quale la politica internazionale non era come il teatro di rapporti di forza ma terreno condiviso di cooperazione, per «stati di pace». Un preludio, si direbbe, come ha indicato più volte il direttore di “Avvenire”, al Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb, il 4 febbraio 2019.

Già Benedetto XVI criticò la globalizzazione materialista di stampo occidentale:

non si può dire infatti che la globalizzazione sia sinonimo di ordine mondiale, tutt’altro. I conflitti per la supremazia economica e l’accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale.

Come del resto anticipò quand’era ancora cardinale:

la Chiesa sostanzialmente non può riconoscersi nella categoria “Occidente”. Sarebbe sbagliato storicamente, empiricamente, teologicamente.

Non è stato un caso dunque se, il 19 settembre del 2009, Benedetto XVI si rifiutò di incontrare l’allora segretaria di stato USA, Condoliza Rice. Quest’ultima chiese udienza poiché partecipava a Roma al “Core Group per il Libano” al cui centro c’erano tre questioni: la crisi umanitaria, l’effettiva cessazione o sospensione delle ostilità, un piano di stabilizzazione che comprendesse una forza multinazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. Inoltre, Condoliza Rice stava per intraprendere un difficile viaggio in Medio Oriente e avrebbe desiderato presentarsi ai propri interlocutori con le credenziali di un colloquio col pontefice.

Nonostante le sue insistenze, l’ufficio del protocollo del Vaticano negò la visita adducendo come motivazione la vacanza del Papa. Quanto ottenne fu un colloquio telefonico con il suo omologo: cardinale Tarcisio Bertone, presente in quel momento negli Stati Uniti. Con ciò si manifestarono plasticamente la differenza di vedute sulle iniziative dell’amministrazione di George Bush in Medio Oriente e di una frizione strisciante sull’Iraq e sui rapporti con l’Iran.

La Santa Sede riteneva che gli Stati Uniti sottovalutassero il problema delle garanzie delle minoranze religiose nella nuova Costituzione irachena. La risposta statunitense fu che le truppe non riuscivano ad avere il pieno controllo del territorio e dunque incontravano difficoltà a proteggere i non islamici. Inoltre, già erano state manifestate frizioni tra i due Paesi in merito alla preoccupazione del Vaticano di una possibile guerra preventiva contro l’Iran. Controversie tra i due stati in merito alla politica estera ma intesa sulle questioni definite etiche, e anche a proposito di queste qualche settimana prima del diniego all’incontro con la Rice, il 9 giugno, il Papa incontrò Bush.

Al mancato incontro con la Segretaria di Stato hanno probabilmente anche pesato le critiche della Rice nel 2003, quando, consigliere per la Sicurezza nazionale di Bush, alla vigilia del conflitto in Iraq, affermò in maniera brutale che non capiva l’atteggiamento del Vaticano, contrario alla guerra; e a trattare con una freddezza al limite della scortesia l’inviato di Giovanni Paolo II, il cardinale Pio Laghi, mandato a Washington il 2 marzo del 2003 nel tentativo disperato di scongiurare l’intervento militare.

Bergoglio spinge a fondo verso il sud globale e ci tiene a dimostrare la sua distanza dagli USA: il capitano dell’occidente collettivo.

Il conclave del 2013, che lo elesse, aveva nel suo seno 28 cardinali italiani su 115. Con l’annuncio, ad ottobre 2024, della nomina di ulteriori 21 cardinali, gli italiani diminuiscono ancora e non tutti saranno elettori. A conferma della linea bergogliana è interessante notare la nomina a cardinale non elettore di Acerbi, 99 anni, ex Nunzio apostolico in America Latina e Giappone: una nomina geopolitica, un segnale a tutti i paesi del sud globale. Queste nuove nomine (ogni anno Bergoglio nomina cardinali) rafforzano la presenza globalizzata del Vaticano. Nel corso del suo pontificato Francesco ha riequilibrato le forze del Collegio disegnandolo sulla dimensione e il volto del mondo, ridimensionando il numero degli europei e distribuendo nomine in altri continenti, affinché l’Urbi et Orbi possa trovare sempre più piena attuazione. Gli “zuccotti” rosso scarlatti cardinalizi asiatici ora saranno 26: il 18% del totale.

Il Collegio cardinalizio sarà composto da 256 membri, dei quali 142 elettori e 114 non elettori. 142 i cardinali da lui creati (113 elettori) saranno così l’ottanta per cento degli elettori in un eventuale Conclave e molti relativamente giovani.

Da notare che Paesi cattolici come l’Irlanda e l’Austria non hanno cardinali o cardinali elettivi; mentre hanno cardinali paesi lontanissimi e piccolissimi, per esempio il Brunei, dove la presenza cattolica è minoritaria (in questo caso quasi il 7% del totale dei credenti).

La scelta a favore del sud globale non riguarda solo l’Africa, anche se resta in questa fase il continente più importante per il futuro del cattolicesimo. Bergoglio sembra vestire i panni del gesuita Matteo Ricci, importantissimo e discusso missionario in Cina del XVI secolo – non a caso dichiarato “Venerabile” proprio da papa Francesco il 17 dicembre 2022 – impegnandosi moltissimo nelle relazioni con la Cina. Fino alla clamorosa rottura con gli USA “Per me è un onore se mi attaccano gli americani”, (4 settembre 2019) e al rifiuto di incontrare (anche lui) il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo il 28 novembre 2020 che aveva attaccato frontalmente e pubblicamente la politica vaticana verso la Cina con un articolo sulla rivista First Things.

Del resto sette anni prima, Bergoglio era già entrato in contrasto con la Casa Bianca criticando il concetto di guerra giusta (intervento USA in Siria). Con la presidenza Biden i rapporti sono poi migliorati fino ad accettare di incontrare, il 23 ottobre 2024, il Segretario alla Difesa USA Llyod Austin riaffermando la volontà vaticana di rendere operativo il cessate il fuoco in Medio Oriente; cosa in potere degli USA qualora cessassero l’invio di armi ad Israele.

Perché questa critica feroce dell’Amministrazione Trump al Vaticano in merito ai suoi rapporti con la Cina e l’altrettanto dura replica della diplomazia vaticana?

Il Vaticano e il governo cinese hanno stipulato uno storico accordo provvisorio il 22 settembre 2018, il cui testo non è stato reso pubblico, che pare riguardi principalmente la procedura di nomina dei vescovi in Cina e mira a favorire una maggiore cooperazione tra la Chiesa cattolica e il governo cinese in merito alle decisioni su questo delicato aspetto. L’intesa ha permesso al Papa di avere un ruolo nell’approvazione dei vescovi cinesi, un tema questo controverso a causa delle nomine unilaterali del governo cinese in passato. L’accordo segreto è stato successivamente rinnovato più volte, l’ultima a ottobre 2024 per quattro anni. La Santa Sede considera il rinnovo come un “esile filo di dialogo” e un passo importante per la presenza cattolica in Cina.

Questa decisione di papa Francesco non è una novità nella storia della chiesa di Roma e, mutatis mutandis, con la Cina si ripropone la lotta per le investiture vescovili. Il governo cinese vuole decidere le nomine vescovili e le impone reprimendo quelle decise da Roma.

Nel lontano passato il vescovo deteneva un enorme potere sia spirituale che terreno. Mano a mano il Vaticano si è però piegato alla volontà dei reali, mantenendo più di una semplice influenza spirituale. Come dimostra il Trattato di Tordesillas del 1494 stipulato con i reami di Spagna e Portogallo. Questa trattato stabilì il superamento della bolla papale di Alessandro VI verso i sovrani cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, determinava l’appartenenza alla Spagna di tutte le terre a 100 leghe a ovest dalle isole Azzorre e Capo Verde e quelle ad est dello stesso Portogallo, mantenendo intatti i territori già sotto il dominio cristiano. Così il trattato segreto tra Cina e Vaticano sembra lasciare al governo di Pechino la scelta dei vescovi ma, pare, senza urtare Roma. Ed è proprio questo che è inviso dagli Stati Uniti i quali vorrebbero avere mani libere nei confronti della Cina e non trovarsi ostili vescovi cattolici cinesi.

Certo il leader cinese XI Jinping è più lontano culturalmente dal papato di quanto non lo fosse Caterina la Cattolica che pure gli impose il summenzionato trattato. Tuttavia la millenaria esperienza vaticana prevede di riuscire, come nel passato, a risolvere a proprio futuro vantaggio la situazione. In questa fase, dunque, niente di nuovo sotto il cielo tra l’ex Celeste Impero e chi afferma di rappresentare il Cielo in Terra. Anche se questo significa e, maggiormente nel futuro con l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati uniti, significherà gestire un forte contrasto nei rapporti con Washington ma ricevere apprezzamento da parte del sud globale.

Queste le ragioni per le quali la politica vaticana mostra – ed è percepita dall’occidente collettivo – Bergoglio l’africano, Bergoglio amico dei BRICS, e Bergoglio il cinese.



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