Il Gattopardo di Netflix? Poteva chiamarsi il “Gattomorto”: Bridgerton, Sicilia da cartolina e storia rimasticata

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Potevano pure intitolarlo il Gattomorto. Tanto, che la nuova serie Netflix Il Gattopardo sia “tratta” o meno dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a parte qualche imparruccato bibliomane, non se ne accorge mica nessuno. Il tema critico, sempre che abbia ancora valore esercitare un pensiero di analisi e commento di fronte all’apocalisse seriale gattopardiana, era inevitabilmente questo: meglio o peggio del film di Visconti del 1963? Ebbene, non esiste sottrazione o addizione di valore quando non c’è un minimo tentativo né di vicinanza filologica, né tantomeno di artistico rispetto, sia per il film che per il libro.

Il Gattopardo versione firmata da Richard Warlow, Benji Walters e del regista di quattro episodi su sei, Tom Shankland, prende a pretesto una vicenda romanzata lontana lontana (pensate alla generazione Z binge watching che vede una carrozza coi cavalli…), la rimastica drammaturgicamente per sommi capi, aggiunge scelleratezze narrative, sottrae specificità storiche, politiche e, ci si permetta, culturalmente patriottiche e nazionali. Più che un lavoro di scrittura Il Gattopardo Netflix sembra un cocktail con bandierine colorate, olivina snocciolata del supermarket e scorzetta di limone stantia (“Don Fabrizio aveva trovato tredici mosche nella granita”, scriveva Tomasi di Lampedusa) dopo un vigoroso rimescolamento in uno shaker: una camicia rossa qua, un cilindro nobiliare là, un gesuita qua, un popolano zotico là. E non ne facciamo un discorso di volontaria superficialità, bensì di normalità globale produttiva e creativa nell’anno 2025. Le specificità locali (l’Unità d’Italia come, esempi a caso, la Rivoluzione Francese o la Guerra Civile spagnola) devono profumare di esotico sì, ma devono rispettare una forma, uno stile, una tonalità tendente all’identico e accettabile contemporaneamente in tutti gli schermi dei pc del mondo.

Inoltre la “storia” nelle serie non deve annoiare e nemmeno tormentare, non deve uscire troppo dai binari del politicamente moderato e corretto, in un solo verbo non deve disturbare. Quindi le vicende del nobile don Fabrizio Corbera, principe di Salina (Kim Rossi Stuart impettito e incazzoso come un Freddo qualunque), di fronte allo sbarco “liberatore” e temporaneo dei rivoluzionari garibaldini, quindi una nuova classe politica dominante savoiarda (al posto della dinastia borbonica) e di rimando dell’avvento della borghesia, devono risultare chiare e leggibili allo stesso modo da un 23enne di Milwaukee come ad una 31enne di Leopoli. E per farlo si inizia a scotennare prima di tutto il romanzo (il film di Visconti lasciamolo pure dov’è…) inventando di sana pianta un prologo, una specie di genetica delle origini belligeranti (in Italia diremmo risorgimentali o ancor meglio mazziniane) di Tancredi (Saul Nanni, esuberante e ganzo come il suo giovane Rocco Siffredi sempre su Netflix), nipote scavezzacollo del principe di Salina dove addirittura “zione” vende un pezzo di terra per farlo uscire di galera.

Un po’ come se all’improvviso una serie su Il conte di Montecristo iniziasse con un’ora di sospette avventurose bombarole frequentazioni bonapartiste di Edmond Dantes che Alexandre Dumas non si era sognato di scrivere. Del resto Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa è così povero di sviluppi narrativi che serve altro per colpire e generalizzare lo spettatore. La serie allora si apre con un’altra mezza invenzione dal nulla: un’incursione palermitana in piena notte e in carrozza di Don Fabrizio (c’è, ma per altri motivi nel romanzo) per andare a riprendere la figlia Concetta (Benedetta Porcaroli) dal convento dove è rinchiusa perché lo chiede la moglie Maria Stella. Vi risparmiamo tutto il tira e molla del “lasciapassare” da ottenere dalla famiglia protagonista per raggiungere la tenuta estiva di Donnafugata: nella serie occupa con una tensione irragionevole quindici minuti di episodio, mentre Tomasi di Lampedusa se la sbrigava in cinque righe.

Come il fatto che Concetta abbia guizzi e sprazzi gagliardi togliendole di dosso l’allure da perdente che le donò l’autore del romanzo. Tanto qui si può fare tutto. Magari anche un Don Fabrizio in camicia rossa garibaldina che cavalca a pelo assieme a Nino Bixio. L’importante è mantenere quel cromatismo da meridione sabbioso e agrumato che fa tanto spot per le vacanze dei turisti stranieri, lindi costumi alla Bridgerton e una bella carrellata sulle tavole imbandite nemmeno ci fosse Ozpetek dietro l’obiettivo. Insomma, come ha scritto il misterioso Carlo Righetti sui social: “ho chiuso dopo cinque stacchi di montaggio”. Elenchiamoli: inquadratura in campo lunghissimo tramonto sul mare con carrozza che procede lontana – stacco -; un gruppo di monache intona un coro dentro una chiesa – stacco -; soldati borbonici marciano al ralenti – stacco-; avvolgente ripresa aerea sulle cupole palermitane con sfondo montano – stacco. Aggiungiamoci pure che la prima didascalia in apertura di serie recita “aprile 1860 – la penisola italiana è frammentata in piccoli stati” (e quali sarebbero? Quello di Sardegna che andava da Como a Cagliari? O quello austriaco che si estendeva da Verona fino a Praga?). Insomma il Gattopardo è morto. Viva il Gattomorto.



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