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Due aprile. È la data che governi europei e imprenditori hanno segnato sul calendario con un circoletto rosso. Quel mercoledì il presidente americano Donald Trump dovrebbe annunciare i dazi, pare al 25%, su tutti i beni provenienti dai Paesi europei, compresi quelli dell’industria agroalimentare, dal vino al caffè, dai prodotti da forno, ai latticini.
Dal formaggio Asiago al prosciutto crudo di San Daniele, tanto per restare a Nord Est. Dentro la tagliola delle tariffe, secondo quanto si sa finora, potrebbe esserci anche il Prosecco.
I distributori americani delle bollicine venete e friulane temono a tal punto questa evenienza che da gennaio a oggi stanno effettuando massicce importazioni di Prosecco, per avere i magazzini pieni ed evitare, per quanto possibile, l’aggravio dei costi sul consumatore finale.
A gennaio, secondo le prime stime, le vendite negli Stati Uniti di Prosecco sono aumentate dell’8% rispetto allo stesso mese del 2024. Ma è solo la punta dell’iceberg di quanto potrebbe accadere se davvero i dazi dovessero diventare realtà. Intanto l’industria agroalimentare del Nord Est prova a prendere le contromisure, non escludendo, in alcuni casi, di poter aprire filiali o addirittura stabilimenti tra le pianure del Midwest, in California o a New York. Perché il business con gli Usa è uno dei più rilevanti per le aziende del settore. Un business, tra l’altro, che conosce da tempo – dalla pandemia a oggi – una crescita importante e garantisce margini altrettanto floridi.
I numeri dell’export
Le cifre, elaborate dall’Ires Fvg su dati Istat, danno esattamente il quadro della situazione. Partiamo dai dati parziali delle vendite negli Usa nel 2024, periodo gennaio-settembre. Grandi affari per Friuli Venezia Giulia e Veneto, segno più pure per il Trentino Alto Adige. In Veneto nei primi 9 mesi del 2024 sono stati esportati prodotti dell’industria agroalimentare per 668 milioni di euro, ben 91 milioni in più rispetto al medesimo periodo del 2023, +15,9%. Impennata per le bevande, che passano dai 444 milioni del 2023 ai 508 milioni del 2024, ma le variazioni positive riguardano tutte le voci del comparto, dalla carne lavorata alla frutta e ortaggi, dai prodotti da forno al pesce. Performance ancora più brillante per il Friuli Venezia Giulia che, tra gennaio e settembre 2024 ha incassato dagli Stati Uniti 125 milioni di euro, rispetto ai 102 milioni dello stesso periodo 2023, con un incremento a doppia cifra, pari al +22,5%. Più che raddoppiata la quota dei prodotti da forno e farinacei, passati da 10 a 22 milioni di euro. Oscillazioni più contenute per il Trentino Alto Adige che ha esportato negli Usa per 237 milioni di euro tra gennaio e settembre 2024, contro i 234 milioni dell’anno prima.
Se analizziamo le variazioni annuali, il trend resta positivo. In Veneto il 2023 si è chiuso con 798 milioni di euro di export agroalimentare verso Washington, mentre nel 2022 sono stati 875 milioni e nel 2021 solo 738. La quota dell’export veneto negli Usa è pari al 10,6% del totale. Crescita costante per le vendite delle aziende agroalimentari friulane e giuliane negli Usa: dai 113 milioni del 2021 si è passati ai 137 milioni del 2023, con una importante quota per il caffè. Il mercato americano, per il Fvg, vale il 5,9% di tutte le esportazioni. Aumenti, infine, anche a favore di Trento e Bolzano, che hanno visto crescere la quota dai 295 milioni del 2021 ai 315 milioni del 2023. Per il Trentino Alto Adige gli Usa sono decisamente il mercato più importante, visto che rappresenta addirittura il 29,3% della quota complessiva di export.
Chi ha un piede oltreoceano
Come fare per limitare l’effetto negativo dei dazi? Una soluzione potrebbe essere aprire stabilimenti sull’altra sponda dell’Atlantico e produrre esclusivamente per il mercato domestico a stelle e strisce che, non va dimenticato, è fatto di 340 milioni di consumatori, in buona parte alto spendenti. L’ipotesi, per esempio, non è stata esclusa dall’amministratrice delegata di Illycaffè Cristina Scocchia che l’ha ventilata solo pochi giorni fa.
Chi ha già entrambi i piedi negli Stati Uniti è un gruppo famoso e importante come Giovanni Rana. Due gli stabilimenti nei pressi di Chicago (Illinois) dove si sfornano pasta fresca, sughi e piatti pronti e dove lavorano parte dei 3.500 dipendenti di tutto il mondo. In prospettiva c’è la costruzione di un terzo sito produttivo, visto che il business, come ammettono gli interessati, è redditizio. Tra i vignaioli nordestini di peso che vantano tenute made in Usa ci sono i Zonin, con Barboursville Vineyards in Virginia, e Santa Margherita, presente con recenti acquisizioni in Oregon, mentre i Vivai cooperativi di Rauscedo, il più importante produttore di barbatelle al mondo, ha una sua base americana. Negli Usa già insediati sono, tra gli altri, stabilimenti dei salumifici Citterio, a Freeland in Pennsylvanya, e di Fiorucci, in Virginia. Il Pastaio di Brescia, sempre in Pennsylvanya, ad Allenwood, sta realizzando un capannone da 6.600 metri quadrati di superficie che ospiterà cinque linee per realizzare gnocchi, delle quali due per il gluten free, mentre il re delle pizze, il pordenonese Roncadin, ha avviato la produzione in Illinois. Infine le acque minerali Galvanina, che negli Usa producono e vendono bevande prettamente tagliate per il consumatore medio americano.
La testimonianza di Rigoni di Asiago
Rigoni di Asiago è un marchio premium per quanto riguarda le confetture e il miele. L’amministratrice delegata, Cristina Rigoni, è appena rientrata da un’importante fiera di settore in California. Per ora non sono previsti sbarchi produttivi negli Usa, anche se la società ha una sede commerciale nel Connecticut, con un ufficio di customer service per gestione ordini, fatturazioni e clientela. «Se verranno applicati i dazi – osserva l’ad Cristina Rigoni – dovremo valutare cosa fare, noi abbiamo un posizionamento premium sul mercato e l’impatto sarebbe forte. Gli americani però amano la nostra tradizione di food, le barriere renderebbero meno accessibile il made in Italy alla classe media. Al momento non abbiamo in programma di costruire uno stabilimento oltreoceano, ma non lo escludo a priori. Del resto il mercato americano è enorme, può offrire grandissime opportunità anche ad aziende come la nostra. Siamo presenti in tutta la Gdo americana, la cosa che viene più richiesta è la Nocciolata, la crema spalmabile di cacao e nocciole. Ma anche confetture e miele stanno andando bene negli Usa, dove il consumatore in un cibo o in una bevanda cerca l’Italia, uno status symbol».
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