I limiti della manifestazione pro-Europa

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Elly Schlein e gli altri non devono solo partecipare alla mobilitazione eventuale. Devono inchiodare alle sue responsabilità nelle sedi opportune chi ha schierato l’Italia a fianco di un impero greve e prepotente. Insieme a tutto il resto dell’opposizione. Una manifestazione che spacchi l’opposizione è il contrario di quel che ci vuole.

Gianfranco Pellegrino

Il 12 marzo alle ore 15.30 c’è il webinar organizzato da IEPO@BUThe Acceleration of History: How Europe Can Survive in the New World con Thomas Gomart (IFRI), Monica Perosino (La Stampa), moderato da Stefano Feltri. Per partecipare, registratevi qui.

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Da un lato, il saloon televisivo di Washington, dall’altro il sogno di una piazza europea, esplicitamente emotiva (chi l’ha ipotizzata, Michele Serra, non ha fatto mistero delle cause emotive della sua proposta).

Davvero questo è tutto quello che abbiamo? Tutta la sapienza accumulata in secoli di civiltà? Dobbiamo scegliere fra una conferenza stampa pubblica, male organizzata, che forse era un agguato, e una manifestazione di piazza? Ci rimane solo lo spazio televisivo, solo la testimonianza? Non c’è altra politica?

Tra l’altro non è detto che si tratti di cose differenti.

È sempre una miscela di veloce e facile stimolazione adrenalinica: quante volte abbiamo guardato il video del feroce Donald Trump che cerca di mettere alle strette il povero Volodymyr Zelensky, per riavere la scarica di adrenalina, misto di divertimento, stupore e paura, che ne derivava?

È la proposta di altri video con persone che sventolano la bandiera europea non è un nuovo cedimento alle logiche elementari dell’emozione?

Voi calpestate i nostri valori, il significato della nostra vita, di noi che abbiamo vissuto all’ombra del patto di civiltà seguito all’orrore della seconda guerra mondiale? E noi scendiamo in piazza, vi facciamo vedere che siamo in tanti a esserne offesi. Voi brandite la bandiera americana? Noi quella europea!

Tranne che se fossimo stati così tanti le elezioni sarebbero andate diversamente. E questa ossessione per i numeri non è la stessa di Trump, l’idea che serva la forza dei numeri, della visibilità, dell’apparenza per stabilire valori?

Trump ha giurato che la piazza del suo primo insediamento fosse la più numerosa – cosa smentita ripetutamente.

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Trump ha detto, congedando Zelensky: “Questa è stata ottima televisione!”, mostrando come funziona la sua mente. Ma il tic che porta alla proposta della manifestazione pro Europa non è diverso: è il sogno delle telecamere che inquadrano una piazza piena, più piena che mai. È la voglia di contarci e vedere che siamo in tanti anche noi.

Ma è questo che conta veramente?

I valori che Trump e Meloni contrastano sarebbero meno condivisibili e veri se fossimo in pochi a difenderli? Che differenza c’è fra convocare una manifestazione a difesa dell’Europa e della pace e chiedere che si voti di nuovo, denunciando brogli?

Ma se il punto fosse questo non sarebbero altre le vie da percorrere? Perché l’opposizione parlamentare ha così poco fascino?

Perché Serra non richiama al suo dovere chi dovrebbe farla? Non c’è, anche in questo caso, un cedimento alla logica della disintermediazione?

Quelli che scenderanno in piazza, plausibilmente, sono gli elettori dei partiti che sostengono le idee più europeiste e meno imperiali o sovraniste. Ma questi elettori hanno già espresso la loro opinione. Se i loro eletti non li rappresentano, allora il problema è molto più grave di testimoniare la propria adesione all’Europa.

Se siamo di fronte a un vuoto di rappresentanza (e può darsi che lo siamo), non si deve fare una manifestazione senza bandiere di partito, o una lista di contatti su whatsapp.

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Semmai, si deve fondare un nuovo partito, o lavorare all’interno del partito che c’è per cambiarne politica e dirigenti. Se non si ha il coraggio di prendere queste decisioni, ove siano necessarie, allora siamo di fronte a un vecchio tic, al desiderio di ritrovarsi tra sodali, alla sindrome dei girotondi. Dobbiamo contarci, o dobbiamo contare? Le due cose non sempre vanno insieme.

Il fatto è che i problemi che stiamo vivendo e l’attacco di Trump riguardano valori e i valori stanno su un piano diverso rispetto ai simboli e alla forza, per quanto simboli e forza servano a comunicarli e a difenderli. L’errore di Trump, Meloni e altri populisti è pensare che i valori siano quelli che derivano dal plebiscito.

La democrazia non produce valori, ma è una procedura che garantisce il valore della scelta libera e dell’eguaglianza.

Se ha un valore in sé, la democrazia, ce l’ha perché permette di affermare autonomia, libertà ed eguaglianza di fronte alla legge.

Anche per questo, la forza della democrazia non sta nei numeri, ma nella procedura che forma i numeri, nella possibilità per tutti di esprimere la propria opinione. Questa dovrebbe essere la differenza fra democrazia e plebiscito.

I valori, quelli della democrazia e altri, si difendono anche se si è in minoranza, come tutti i valori.

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Il progresso morale è stato fatto di minoranze che illuminavano maggioranze miopi. Così è stato per la lotta contro il razzismo, così è per la lotta contro le discriminazioni di genere.

Tutte le piazze di avanguardia erano piazze di minoranze. Non contava il numero, ma la forza delle argomentazioni e delle parole. La piazza di Martin Luther King senza i suoi discorsi non sarebbe servita a nulla.

Il sentimento europeo è ovviamente in minoranza, nonostante i molti che aderiscono o aderiranno alla manifestazione.

E mancano i discorsi capaci di articolare questo sentimento, non una manifestazione di chi lo prova. Se non fosse stato così, non avremmo istituzioni europee deboli e capi di Stato europei esitanti.

Naturalmente, come detto, le minoranze che difendono valori condivisibili debbono avere la forza di farsi capire, e per questo possono servire simboli e mobilitazioni.

Ma si tratta di mezzi, e non sempre risolutivi. Ciò che Trump e tutti i campioni della disintermediazione calpestano è la divisione del lavoro fra cittadini responsabili e politici eletti.

Quel colloquio doveva essere fatto a porte chiuse non solo per rispetto e per evitare la facile ridicolizzazione di Zelensky (che peraltro ha resistito bene), ma anche perché è nel setting della diplomazia e della politica a porte chiuse che si possono articolare i compromessi e le concessioni necessarie a salvare, appunto, valori come la difesa del più debole, la pace necessaria dopo una guerra sanguinosa, e così via.

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Il valore che Trump calpesta non è solo quello dell’autodeterminazione dei popoli. Calpesta anche valori più sottili: per esempio, il valore della politica come mediazione, come mandato, in cui i cittadini esprimono il loro orientamento su questioni ampie e lasciano ai loro rappresentanti il lavoro paziente di costruire consenso e trovare vie di mediazione.

Naturalmente, c’è anche il valore dell’indipendenza di un popolo contro un invasore. Anche questo valore Trump lo calpesta e questa cosa rende molto pericoloso questo precedente. Come ha detto Zelensky, sinché c’è un Oceano di mezzo si è sicuri, ma … E noi europei non abbiamo un Oceano a separarci da Putin. Ma questo valore, il valore della nostra libertà, non si deve affidare a manifestazioni.

È una cosa troppo seria.

Si deve affidare al voto e alla mobilitazione responsabile degli eletti. Elly Schlein e gli altri non devono solo partecipare alla mobilitazione eventuale. Devono inchiodare alle sue responsabilità nelle sedi opportune chi ha schierato l’Italia a fianco di un impero greve e prepotente. Insieme a tutto il resto dell’opposizione. Una manifestazione che spacchi l’opposizione è il contrario di quel che ci vuole.

Se c’è una cosa che potrebbe unire le opposizioni, almeno quelle responsabili, anche al di là della frattura sul pacifismo, è l’opposizione a questa specie di imperialismo di bassa lega televisiva.

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Mercoledì 12 marzo, 15.30-16.30. Link di registrazione (evento in inglese)

Thomas Gomart, direttore dell’IFRI—il più influente think tank francese sulle relazioni internazionali—ha recentemente pubblicato un libro dal titolo oggi più che mai attuale: The Acceleration of History.

Le crisi che l’Europa si trova ad affrontare si sviluppano a una velocità tale che la politica fatica a rispondere in modo efficace: la guerra in Ucraina, le tensioni crescenti in Medio Oriente e la questione dello Stretto di Taiwan.

Ancor prima di Donald Trump, la storia aveva già iniziato ad accelerare. Oggi gli eventi procedono così rapidamente che le democrazie si trovano in difficoltà nel tenere il passo.

Riuscirà l’Unione Europea a far fronte a queste sfide? Sarà capace di adattarsi a questa nuova era, combinando politiche nazionali e strategie innovative a livello comunitario?

Esploreremo queste domande in un evento digitale con Thomas Gomart e la giornalista de La Stampa Monica Perosino, esperta di Ucraina ed Europa orientale. Di recente è stata in viaggio nella regione e offrirà una prospettiva diretta su come la situazione stia evolvendo.

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Relatori

Thomas Gomart è direttore dell’Ifri dal 2015. Ha fatto parte del comitato editoriale del National Defence and Security Strategic Review del 2017

Monica Perosino è giornalista per il quotidiano italiano La Stampa dal 2001. Si occupa di Europa orientale e centrale, Paesi baltici e Scandinavia dal 2013.

Modera Stefano Feltri

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L’Institute for European Policymaking della Bocconi è il think tank fondato da Mario Monti con il quale collaboro, che vuole portare la ricerca accademica nel dibattito europeo.

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