un viaggio tra cinema, scuola e coscienza

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 E quando disperi per un quotidiano malmesso, per risposte che mai arrivano (non per come uno se le potrebbe aspettare, ma proprio non arrivano) assapori un barlume di speranza in fondo ad un tunnel di indifferenza.


Parlare ai ragazzi per noi di un’altra generazione è cosa complessa, farlo con degli studenti credo anche di più: oberati da progetti e spesso magari coinvolti in attività di cui sommamente non gliene stracatafotte (neologismo oramai d’uso comune, invenzione di chi quest’anno avrebbe brindato al secolo, il buon Camilleri) nulla, ma ci sta: la scuola e la vita è anche vivere di tazze di tea che non berremo mai.

E per complicartela – la vita – in una noiosa domenica di novembre un amico magistrato lancia un’idea – bella stimolante ma bislacca – “perché non approfondiamo il tema della Giustizia riparativa? In fondo anche noi magistrati ne sappiamo poco, e voi al 38° delle parole ne avete fatto ragione di essere per tramite di un festival e non solo”…

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Come per tutte le cose serie, si inizia per gioco, e chiamo un paio di amiche prof e se ne parla, il tema è complesso e il mio amico giudice sa già intimamente che farà training on the job quando inizieremo: per lavoro lui accerta fatti – lo fa per legge – e se in presenza di un reato commina una pena.

Poi con la riforma della giustizia la Cartabia (dal nome della Ministra al tempo alla direzione del dicastero) è entrato in gioco questa pietra angolare, che da profano della materia aggiunge ai miei occhi addendi al grado di civiltà del nostro Paese, e prende come atto d’obbligo la giustizia che rammenda, che prova a sanare un qualcosa di compromesso a volte in modo irreparabile.

Col tatto dovuto presentazioni di rito e ci troviamo davanti ad un centinaio di studenti a raccontare questa storia senza turbarli, senza sapere chi sono che storie hanno; sappiamo solo una cosa io e il Giudice che loro stanno davanti a noi come volontari, nessuna imposizione in questo gioco di ruolo tra chi parla e chi ascolta.

Buio in sala, iniziamo con un film di Ken Loach – maestro di cinema, maestro nel raccontare storie di periferia spesso di chi vive ai margini di una vita complessa – La parte degli angeli del 2012, Premio della Giuria a Cannes una commedia che media con la sua cifra una storia di riparazione e di rinascita. I ragazzi sono gli studenti del Liceo Scientifico di Marsala Pietro Ruggieri, noi i marziani che proponiamo non ho idea cosa ad un pubblico che al tempo della produzione del film forse non erano neppure nei pensieri dei genitori. Titoli di coda, applausi di rito le prime domande e dagli occhi comprendi che forse una piccola breccia l’hai aperta: quella della curiosità

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Ieri l’altro al Parco Archeologico di Lilibeo, la seconda parte di questa narrazione sulla giustizia che ripara, alla presenza di due professioniste della materia e del Giudice che inizia senza tentennamenti e se volete anche in modo crudo raccontando il lavoro che fa: il fascicolo i documenti e se del caso la pena, e a volte il carcere.

Il silenzio lo vedi quasi uno spaesamento, gli occhi loro raccontano molto più di sciocche parole di circostanza. Poi parte la catarsi di questo viaggio che parrebbe a senso unico, le testimonianze delle mediatrici raccontano di uno Stato che tenta di non lasciare indietro per quanto possibile nessuno, raccontano di vite altrui che sono diventate le loro perché affidate dalla legge, e il silenzio prende parola e poi dibattito su temi che metterebbero in difficoltà un adulto e poi da lì una breve attività laboratoriale: gli studenti protagonisti assoluti e liberi di essere e esprimersi, stravolgendo anche solo per poco l’ordine di una sala convegni – commovente la sola parola che riesco a pensare e respirando a fondo caccio via una lacrima, uscendo da lì per qualche istante.

 

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Avevo assistito e toccato con mano ad un tempo in cui, non più due amiche ma un gruppo coeso di professoresse hanno vissuto l’emozione di una visione laterale senza filtri, quella dei sentimenti da parte dei loro ragazzi.

E non è retorica quando scrivo e affermo che la Scuola è l’ultimo baluardo dello Stato sui territori, quando lì e solo lì dentro formi la futura classe dirigente e lo potrai fare anche e sopratutto se rimescoli le carte e proponi storie con un tiro apparentemente incerto.

E’ il gioco della semplicità complessa, è rileggere Italo Calvino se ci pensiamo.

Mi onoro di frequentare la casa di Giovanna e Nino De Vita, e nel breve soggiorno a finis terrae ho ricevuto un gradito presente ovvero l’ultimo libro per i tipi de Le Lettere – che poi fu il primo pubblicato da Nino nel 1994 ovvero Cutusio – e a questi studenti alle professoresse e a chi quella mattina è stato lì consegno le prime righe dell’introduzione al libro:



Voglio prima di tutto, ricordare un tempo, una stagione vicina, ma che appare ormai lontana, quasi remota. Rievocare un tempo in cui la Sicilia, giovani e non più giovani, come raggiunti da un messaggio, si muovevano da città o paesi e convenivano in un luogo per incontrarsi, conoscersi o meglio riconoscersi. Disegnavano o ridisegnavano, quei viaggiatori, nei loro movimenti da un luogo a un altro, in quegli itinerari, in quella convergenza vittoriniana, una nuova mappa della Sicilia, una nuova topografia dello spirito (Vincenzo Consolo)

 

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