Perché riarmarsi farà bene all’economia

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Tensioni politiche e prospettive economiche alla luce del piano ReArm Europe. Il commento di Polillo

C’è tanta preoccupazione in giro per le possibili conseguenze finanziarie delle ultime decisioni del Consiglio europeo. Quella proposta di un piano finanziario di 800 miliardi in cinque anni per costruire un sistema difensivo i grado di dissuadere gli eventuali malintenzionati. Non tutti l’hanno gradita. Alcuni l’hanno direttamente contestata al grido “vogliamo più burro e meno cannoni”. Una vecchia litania che risale al secolo scorso. Quando gli economisti cercavano di spiegare che produrre cannoni, può anche significare avere più burro a disposizione, grazie ad una maggiore crescita dell’economia. Altri, invece, hanno scelto l’irrazionale fuga in avanti. Vogliamo l’esercito europeo. Dimenticando che la sua esistenza presuppone uno Stato unitario e non certo quell’area monetaria non ottimale che oggi è rappresentata dall’Eurozona, mentre il resto dell’UE non ha ancora varcato il Rubicone della moneta unica.

Immaginiamo quindi il ghigno di Vladimir Putin nell’ascoltare quelle dichiarazioni. I soliti italiani: avrà pensato. Soprattutto una democrazia imbelle di fronte ad un’autocrazia capace di ottemperare pienamente all’antico detto: si vis pacem para bellum”. “Se vuoi la pace prepara le guerra”. Partire da quell’equilibrio del terrore che, negli anni passati, aveva garantito la logica di Yalta. Che, oggi, Emmanuel Macron, nemico giurato, a quanto sembra di Matteo Salvini, vorrebbe insidiare, mettendo a disposizione dell’Unione europea, in una pura funzione difensiva, la sua “force de frappe”, quelle decine di atomiche che la Francia possiede e qualche sommergibile nucleare. Contro le quali Putin, ha da tempo schierato un numero di armi offensive dieci volte tanto. Un rapporto di forza che gli consente di ricordare le figure di Napoleone ed Hitler. Volevano attaccare la Russia, ma hanno fatto la fine che meritavano.

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Si aggiunga soltanto che il Cremlino non ha esitato a militarizzare l’intera economia, nel tentativo di venire a capo non dell’”operazione”, ma dell’”avventura speciale militare”, che la Russia, prima o poi, sarà chiamata a pagare. Anche se al momento, con grande soddisfazione de “Il Fatto quotidiano”, le circostanze sembrano darle ragione. In Europa erano stati in molti a teorizzare l’inevitabile collasso di un’economia così fragile. La Russia, si diceva, non avrebbe retto il peso delle sanzioni. La chiusura dei mercati più redditizi l’avrebbe privata delle risorse necessarie per far fronte allo sforzo bellico. Il crollo del rublo avrebbe fatto piazza pulita di ogni residua speranza.

Non sembra sia andata così. Il Pil, nel triennio segnato da lutti e distruzioni, è cresciuto, in media del 2 per cento, molto meno del tasso di crescita degli ultimi anni di pace; ma sempre meglio, seppur di poco, di quello dell’Eurozona. Ovviamente non sono mancati i guai. Attualmente il tasso di riferimento della Banca centrale è pari al 21 per cento, per far fronte ad un’inflazione del 9,9 per cento. I privati non possono trattenere valuta estera oltre i 10 mila dollari. Il rublo ha perso quasi la metà del suo originario valore. Il suo commercio con l’estero si è spostato a favore dei Brics e della Cina. Ma un conto era il ghiotto mercato interno dell’Occidente, un altro quello dei nuovi arrivati, in cui si possono vendere solo quantitativi minori ed a un prezzo scontato.

Che insegnamento trarre da quell’esperienza nel suo complesso, se non l’ulteriore conferma che spendere per il riarmo, ma nel caso europeo si tratterebbe di sicurezza, fa bene all’economia. Vecchia lezione che risale agli anni ‘30, quando la crisi del ‘29 fu definitivamente superata dalle politiche del riarmo in vista della Seconda guerra mondiale. Ovviamente non può essere questo l’auspicio. Anzi la deterrenza è il mezzo migliore per scongiurare simili catastrofi. Tesi che dovrebbe tranquillizzare il Ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti, fin troppo apprensivo. Comprendiamo le sue preoccupazioni sugli effetti che le maggiori spese possono avere sul quadro della finanza pubblica, ma non è così automatico che a quelle scelte debba corrispondere necessariamente un aumento del rapporto debito/Pil.

Una prima conferma la si ha, guardando gli ultimi dati dell’Istat sul “Pil ed indebitamento per gli anni 2022 – 2024”. Come si può vedere, nel 2024, il debito pubblico italiano è passato dal 134,6 al 135,3. L’aumento è stato di 0,7 punti. Ed ha interrotto la fase discendente che dal 2020, quando il debito era stato pari al 154,3 per cento, lo aveva portato, nel 2023, al 134,6 per cento. Con una riduzione di ben 19,7 punti. Quali le cause dell’inversione di tendenza del 2024? Un eccesso di spesa pubblica non finanziata? Non si direbbe. Il deficit di bilancio è sceso dall’8,9 per cento del 2021 al 3,4 del 2024. A sua volta, la pressione fiscale, che negli anni precedenti si era ridotta, nel 2024 è aumentata dell’1,2 per cento. Gli italiani non sono stati cicale e, allora, la spiegazione va ricercata altrove. Nel fatto che lo scorso anno la crescita del Pil nominale è stata insufficiente: pari ad appena il 2,9 per cento, contro una media di tre volte tanto del triennio precedente.

Un caso fortuito? Qui abbiamo una seconda conferma. Dalla nascita dell’euro l’Italia è riuscita ad abbattere il suo debito solo nel 2007, quando l’asticella si fermò al 103,9 per cento; partendo dal 109 del 2001. La spiegazione del fenomeno fu offerta da Ignazio Visco, allora Governatore della Banca d’Italia, nelle Considerazioni finali del maggio 2016. “L’aumento dell’incidenza del debito pubblico sul prodotto, da poco meno del 100 per cento nel 2007 a quasi il 133 lo scorso anno, è soprattutto il portato della crisi. Se in questo periodo il prodotto reale fosse aumentato in linea con il decennio precedente e il deflatore in linea con l’obiettivo di inflazione nell’area dell’euro, il peso del debito sarebbe aumentato di soli tre punti percentuali, un incremento di poco inferiore a quello derivante dal sostegno finanziario fornito dall’Italia ai paesi in difficoltà; tenendo conto delle ricadute positive di una maggiore crescita sul disavanzo pubblico, il peso del debito si sarebbe ridotto. Questo semplice esercizio rende evidenti i rischi ai quali è esposta l’economia di un paese in grave ritardo competitivo e l’importanza di riforme strutturali volte a sostenerne il potenziale di crescita; esse sono tanto più necessarie in presenza di un debito pubblico così elevato”.

Da allora le cose non sono cambiate. Giancarlo Giorgetti, quindi, si tranquillizzi. Tenga sotto controllo la spesa corrente. E vedrà che le maggiori spese per proteggere l’Europa e l’Italia dalle velleità imperialiste del Cremlino non produrranno alcuna catastrofe. Ma forse saranno un lievitoper l’intera economia.



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